The Bourne Legacy, Edward Norton: “Il mio villain con questioni morali”

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Se in The Bourne Legacy Jeremy Renner è un’agente segreto che lotta per la sopravvivenza la colpa è tutta di Edward Norton, il villain del film. Smessi i panni del capo boyscout per Wes Anderson e il suo Moonrise Kingdom ha infatti vestito quelli del colonnello Ric Byer, lo spietato capo della NRAG, organizzazione che sostiene il programma di agenti segreti inizialmente chiamato Treadstone, lo stesso in cui militava Jason Bourne, poi evolutosi in Blackbriar e diventato ora Outcome. E’ proprio questo colonnello a volere la chiusura definitiva di Outcome, ovvero lo smantellamento del programma che vedrà la sistematica eliminazione di tutti gli agenti iscritti e dei dottori assegnati alla loro cura psicofisica. Anche lui a Roma per il tour promozionale del film che esce il 14 settembre, Norton ci ha svelato quanto sia interessante interpretare il ruolo del cattivo. E non solo.

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Il tuo personaggio sembra essere l’uomo dietro a tutto quanto succede nella saga di Bourne eppure è la prima volta che lo vediamo nei film del franchise. Cosa ti ha spinto ad accettare?
Tutte le volte che entri in una serie ti chiedi quali sono le motivazioni che spingono le persone a continuare a raccontarla. Sono un grande fan di Tony Gilroy e del suo lavoro e questo è stato un grosso incentivo: sapevo che avrebbe fatto progredire davvero la storia e non sarebbe tornato a raccontare fatti già noti del passato dell’universo Bourne. Inoltre Tony è l’uomo che meglio conosce questa saga perché ha sceneggiato tutti gli episodi, quindi ero ancora più curioso di scoprire quali motivazioni morali avrebbe affibbiato ai personaggi per spiegarne le azioni.

Ric Byer autorizza una carneficina quando decide di smantellare il programma Outcome. E’ stato affascinante fare il cattivo?
Non in senso canonico. Quando me l’hanno proposto mi sono detto “ma non voglio fare il villain” poi ho capito che a rendere interessante il tutto era che il personaggio era scritto senza vere intenzioni cattive, c’erano delle sfumature. Quando autorizza la chiusura di Outcome ubbidisce ad un ordine, è il suo lavoro. Ci sono dietro conflitti morali e convinzioni radicali, e quelle sì che sono interessanti da scandagliare: come fai a rendere credibile qualcuno che non pensa di essere cattivo o di fare cose sbagliate, non importa se necessarie o meno? Le persone reali hanno un senso preciso di chi sono così come hanno una serie di ideali e non è detto che tutti questi ideali siano necessariamente buoni. Dividere tutto in buono o cattivo è una razionalizzazione che ci serve per aiutarci a capire dei modi di agire, ma non è sempre vicina alla realtà. Di sicuro tutti al mondo pensiamo di essere nel giusto, e di esserlo più degli altri. Una dinamica molto umana che Tony è riuscito a portare nello script nel suo solito modo tagliente e intelligente.

Quindi una delle chiavi del successo di Bourne sta nella rappresentazione verosimile della società?
Sì. Gli agenti speciali che interpretiamo raccontano un mondo che esiste. Bourne non è James Bond o Mission Impossible che sono fantasy. Esistono persone addestrate dai governi per uccidere e c’è tanta gente anche negli Stati Uniti che giustifica il male per portare avanti le ragioni di un mondo superiore, un mondo in cui corporazioni, governi o militari ci dicono cosa sia giusto e cosa no. La questione morale è molto attuale in questo momento storico, da noi se ne occupano anche giornali importanti, come il New York Times con articoli in prima pagina. (Continua sotto…)

Mentre leggevi il copione non ti sei spaventato a pensare che la cospirazione di Bourne Legacy può accadere davvero?
Le mie paure erano già le stesse prima del film, non sono aumentate. Ma c’è molto altro di cui avere paura, Tony ha fatto un sacco di ricerche sui programmi del governo e letto studi sugli effetti che alcune droghe hanno sul cervello.

In che modo lavori sul personaggio?
Ogni film è un’investigazione su un mondo che magari non conosci e mi sento molto fortunato a fare l’attore perché ti aiuta a espandere la mente, ma sono sempre stato riluttante a confrontare il personaggio con me stesso, non divento lui ma cerco di investigare motivazioni e processi che mi possono aiutare a capire cosa fa l’altro e perché.

Anche se si pone delle questioni, Byer è sempre il cattivo della situazione. Ti sei ispirato a villain famosi della storia del cinema?
Non direi. Ci sono dei cattivi che mi piacciono molto come Daniel Day Lewis ne Il petroliere, Gene Hackman in Superman e John Houston in Chinatown, ma più che villain li definirei personaggi molto persuasivi con cui uno andrebbe a cena volentieri. Più che con un buono.

Dopo il tuo esordio da regista nel 2000 (Tentazioni d’amore) non ti sei più dedicato alla direzione degli attori. Non ci pensi più?
No, ma ora mi interessa principalmente produrre. Un mese fa ho finito di scrivere un mio copione, una specie di spy-story. Ultimamente sono poco interessato alle cose che leggo firmate da altri quindi ho uno stimolo in più a crearmi le storie che voglio da solo. L’altra cosa che mi interessa è produrre. Insieme a Brad Pitt abbiamo proposto l’adattamento di un romanzo, Undaunted Courage di Stephen F. Ambrose, già autore di Band of Brothers. È un libro troppo ricco per farne un solo film, così abbiamo pensato ad una serie. Racconta la spedizione compiuta da Lewis e Clark negli Stati Uniti del 1800.

Ma hai trovato anche il tempo per farti qualche risata ne Il dittatore.
Sacha Baron Cohen è un amico e avevamo parlato di fare qualcosa insieme di divertente da qui è nato il mio cameo. Sacha per me è un genio, è un novello Peter Sellers.

Oltre a fare l’attore sei anche un’attivista per l’ambiente. In che cosa sei occupato ora?
Da 2 anni sono ambasciatore per le biodiversità per le Nazioni Unite. In pratica li aiuto a comunicare a un pubblico più vasto possibile cosa sia la biodiversità e il modo in cui si può preservare. Da 10 anni invece collaboro con 2 italiani, Luca Belpietro e Antonella Bonomi, che hanno creato un programma per la salvaguardia delle tribù masai in Kenya. È un progetto riconosciuto a livello internazionale che ha vinto molti riconoscimenti importanti nel campo della beneficienza eppure è finanziato molto poco dall’Italia: solo il 2% del budget arriva dal vostro paese. Mi sono sempre chiesto come mai. È un peccato perché il Maasai Wilderness Conservation Trust è una realtà importante e molto utile.

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