The Falcon and the Winter Soldier, la recensione finale della serie Marvel

Uno sguardo complessivo e un bilancio sulla serie Marvel con Anthony Mackie e Sebastian Stan, che ha aperto la strada al quarto film standalone su Captain America

The Falcon and the Winter Soldier
PANORAMICA
Cast (3)
Regia (3)
Innovazione (2.5)
Narrazione (3.5)

The Falcon and the Winter Soldier, la seconda serie della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe dopo WandaVision, vista nelle ultime settimane su Disney+, ha approfondito nell’arco di sei episodi due personaggi non certo in passato sulla bocca di tutti come Sam Wilson/Falcon e Bucky Barnes/Soldato d’Inverno, interpretati rispettivamente da Anthony Mackie e Sebastian Stan. 

Non si fa certo torto a nessuno nel definirli due “comprimari di lusso” e nulla più, eppure il serial loro dedicato ci ha mostrato come la compattezza granitica dell’immaginario che la Marvel sta portando avanti ha una forza tale da permettersi di esplorare meglio due caratteri così “fisici” inglobandoli comunque in un discorso che suoni organico e dialettico. Senza che risultino dei corpi esterni, insomma, e rendendoli comunque degli spunti di riflessione meritevoli d’attenzione. 

L’arco narrativo di The Falcon and the Winter Soldier, nonostante battute d’arresto del racconto e cadute di tono che occasionalmente fanno capolino in un tessuto action di muscolare e invidiabile potenza produttiva, li protegge infatti dall’inizio alla fine. Non rischia mai di farli andare in conflitto con un disegno più grande, né coi film visti finora né con quelli che vedremo in seguito. Le serie su Disney+ dopotutto dovevano essere un “di più” rispetto ai lungometraggi per il cinema ed è stata la pandemia a invertire le priorità dell’agenda audiovisiva globale. Ragion per cui lo svolgimento della serie è, da questo punto di vista, contestuale alla sua destinazione d’uso. 

Qualcuno ha parlato, perfino, di una sottotrama presa in considerazione e poi tagliata su un virus che i flagsmasher avrebbero voluto inoculare sul pianeta per riportare indietro le lancette della popolazione mondiale e tornare ad una società pre-Blip. Di questi tempi sarebbe stato effettivamente di cattivo gusto (o quantomeno scivoloso), ma la sensazione al cospetto di The Falcon and the Winter Soldier, come già in WandaVision e a prescindere dalle storyline specifiche, è in fondo quella di una piacevole marginalità rispetto alle priorità più spettacolari e martellanti dei film per i cinema, guidati tuttavia dalla stessa idea di condivisione e universo condiviso. Ci si gode questi spin-off in serie (in tutti i sensi), se si è fan della Marvel, con una certa dose di naturalezza e istantaneità, senza che il disegno micro pregiudichi o influenzi nella sostanza il macro, in piena continuità tra piccolo e grande schermo. 

Falcon, spalla di Captain America e compagno d’armi dell’iconico supereroe, uscito di scena come sappiamo nel finale di Avengers: Endgame e al quale Cap ha affidato il suo scudo, diventa uno strumento attraverso il quale giungere a una consapevolezza uniforme ma dalle molte facce e declinazioni. Un simbolo, un archetipo e chi più ne ha più ne metta, dalla dimensione retorica tanto stratificazione quanto esposta ed immediatamente leggibile: un Captain America black che alla fine accetta finalmente la sua missione, in virtù di rappresentazione a stelle e strisce così interna e consapevole che non potrebbe esistere, a livello geopolitico ma anche sociale e d’immaginario, da nessun’altra parte.

Nel corso della serie apprendiamo che esiste un supersoldato nero che ha fatto una fine molto diversa da Steve Rogers (ovvero Isaiah Bradley), ma ciò che conta sono le zone d’ombra e le transizioni tra il vecchio e il nuovo, gli slittamenti tra personaggi diversi che sono i vettori ideali di questi passaggi. Transizioni evidenti soprattutto nelle figure più sgradevoli e carismatiche, quelle che The Falcon and the Winter Soldier valorizza solo apparentemente di straforo: dai traumi di John Walker, un Captain America investito di responsabilità considerevoli ma terribilmente segnato alla fine dei giochi, allo Zemo grande manipolatore divisivo, fino a una Sharon Carter resa un villain impenetrabile e privo di bussola (un potenziale Skrull?) in attesa di futuri scenari. 

The Falcon and the Winter Soldier, vista dall’alto, in fondo è proprio questo: un preludio e un monito all’accettazione, evidentemente l’alba di un nuovo Captain America (il quarto film – senza Chris Evans? – è stato annunciato poche ore dopo la fine della serie), ma anche a suo modo la radiografia dell’umanità contraddittoria che sta dietro a certe icone granitiche, con una gestione dell’economia politica della questione che la Marvel non aveva mai evidenziato in modo così inequivocabile, dialogando con la realtà (e i suoi simulacri mediatici) con questa sfacciata frontalità.

E The Falcon and the Winter Soldier, al di là dei meriti cinematografici, dell’estetica televisiva e della polvere smossa, è manco a dirlo la serie giusta al momento giusto (cosa che ormai con la Marvel non stupisce più, a maggior ragione dopo WandaVision), specie negli Stati Uniti post-George Floyd. A proposito del Cap black viene detto: «Nessun nero che abbia rispetto per se stesso vorrebbe diventarlo», e per questo motivo è doppiamente necessario che un ragazzino americano di oggi, specie se nero, possa rivedersi in lui. Una questione forse di metodo («Se vuoi uscire dall’inferno in cui sei, lavoraci sopra») ancora prima che d’identità, di sguardo, di colori, agende (e taccuini) politici, di minoranze schiacciate, di stelle e strisce, di bandiere. 

Foto: Marvel Studios

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