Top Gun: Maverick, romanticismo e adrenalina spiccano il volo nel sequel perfetto. La recensione

Il sequel del Top Gun del 1986 con Tom Cruise, diretto da Joseph Kosinski, arriva nelle sale il 25 maggio dopo il passaggio Fuori Concorso al Festival di Cannes

Top Gun: Maverick
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (4)
Colonna sonora (4)

Il Tenente Pete “Maverick” Mitchell (Tom Cruise), tra i migliori aviatori della Marina, dopo più di trent’anni di servizio è ancora nell’unico posto in cui vorrebbe essere. Evita la promozione che non gli permetterebbe più di volare, e si spinge ancora una volta oltre i limiti, collaudando coraggiosamente nuovi aerei. 

Chiamato ad addestrare una squadra speciale di allievi dell’accademia Top Gun per una missione segreta, Maverick incontrerà il Tenente Bradley Bradshaw (Miles Teller), nome di battaglia “Rooster”, figlio del suo vecchio compagno di volo Nick Bradshaw “Goose”. Alle prese con un futuro incerto e con i fantasmi del suo passato, Maverick dovrà affrontare le sue paure più profonde per portare a termine una missione difficilissima, che richiederà grande sacrificio da parte di tutti coloro che sceglieranno di parteciparvi.

Sono serviti trentasei anni – più molteplici rinvii dovuti alla pandemia – per poter godere finalmente del sequel di uno dei film-simbolo di maggior successo degli anni ’80, il Top Gun del 1986, ma il risultato raggiunto da Top Gun: Maverick ripaga ampiamente l’attesa. Non solo perché si tratta di un solare e splendente esempio di smagliante blockbuster contemporaneo, all’apice delle sue forze e potenzialità, ma anche perché siamo di fronte a conti fatti a un efficacissimo aggiornamento (e al tempo stesso rifacimento) del predecessore, capace di portare a un nuovo grado di perfezionamento la possibilità del film ad alto budget hollywoodiano di oggi di riflettere su se stesso e sugli strascichi di ciò che fu, rilanciando il proprio magistero all’insegna di spettacolarità, sfide ad alta quota, sospensione dell’incredulità (e fiato sospeso). 

Come chiarisce il titolo, oltre che un Top Gun 2 Top Gun: Maverick, dedicato alla memoria del regista dell’originale Tony Scott, è un film di e sul pluridecorato Pete Mitchell detto “Maverick”, e in quanto tale si configura fin da subito come la celebrazione definitiva dell’icona Tom Cruise, ormai quasi sessantenne ma ancora ostinato nel lavorare senza controfigure e abile come pochi altri a resistere all’usura del tempo, nel corpo e nell’immaginario. Al contempo come totem commerciale, deus ex machina dal peso di sistema e dall’impronta produttiva superiore a tanti autori e registi, soprattutto nelle logiche industriali, e divo action di primissimo piano, con gli addominali e il sorriso lucente e carismatico miracolosamente intatti e le rughe che sembrano solo ispessirne di autorità e saggezza il fascino sempreverde.

Se nel capostipite, omaggiato con stressa osservanza fin dal prologo letteralmente identico per didascalie, jet, cieli arancioni e note di Moroder, il contesto didattico della scuola d’élite per giovani aviatori era immediatamente politico e la politica era qualcosa da lasciare in mano ai politici di mestiere e ai civili, mentre ai militari bastava sapere di doversi comportare come se fossero sempre in guerra, qui il passaggio di Maverick dall’iniziazione all’istruzione da lui stesso tenuta in cattedra è una questione di responsabilità da acquisire dopo trascorsi spericolati e scapigliati duri a morire, di dialogo – fatalmente faticoso e farraginoso – tra due generazioni, di smarrimento dell’utopia ottimista e supersonica degli anni ’80 in favore del ripristino di un più disteso romanticismo sentimentale e familiare. Unica panacea possibile, quest’ultimo, sulla quale ripiegare in tempi burrascosi e incerti, anche per le nuove generazioni schiacciate dal peso di padri ingombranti e dalla mancata percezione di una missione decisiva dalla quale essere investiti per cambiare le carte in tavola degli scenari globali (rubata loro proprio dai padri e dai fratelli maggiori). 

Il passaggio tra il Maverick imberbe di ieri e quello invecchiato e ammaccato di oggi Top Gun: Maverick lo restituisce grazie a un senso dell’epica luminosa ma anche chiaroscurale, che abbraccia silhouette fordiane (nel senso del John Ford di Sentieri Selvaggi: Maverick all’inizio si trova nel deserto del Mojave, in California, dove Ford girò il suo ultimo western muto, I tre furfanti) e la percezione che quella dei piloti come lui siano ormai “una razza in estinzione”, una riserva indiana da proteggere e della quale si continua nonostante tutto a non poter fare a meno. 

Non c’è più alcuna fiducia incrollabile negli apparati governativi e militari (la battuta dell’originale che Maverick rivolgeva a Charlotte – «Lo so che per lei è rischioso, ma se si fida di me il governo, può fidarsi anche lei» – non potrebbe essere più invecchiata) e rimane solo il bagliore di un umanesimo terminale fatto di luci e ombre, esercitabile attraverso il bisogno vitale di continuare credere nell’elemento umano nella macchina, nell’estro del singolo. Perché dopotutto a fare la differenza è sempre il pilota e non l’aereo, di pensiero si continua a morire (specie quando ci si rifugia ossessivamente sul pensare solo su se stessi e sulle conseguenze delle proprie gesta, soprattutto tra i cieli) e non resta altro che l’azione in se stessa – per certi versi anche fine a stessa – come unico slancio decisivo e salvifico per «lasciare andare il passato», come dice a Maverick il Tom “Iceman” Kazinsky di Val Kilmer nella scena più straziante e commovente di questo senso. 

La sensazione è quella di un film che Cruise ha cesellato e assemblato millimetricamente su se stesso, scegliendo due suoi fidati sodali (Joseph Kosinski alla regia e il Christopher McQuarrie degli ultimi Mission: Impossible in sceneggiatura), riannodando i fili della sua carriera e potendoselo permettere dopo quattro decenni sempre sulla cresta dell’onda, nei quali ha cavalcato con eguale dimestichezza i franchise spionistici come M:I e i tentativi (falliti, ma tutti’altro che trascurabili) di arrivare all’Oscar, da Magnolia a Collateral, passando per pochi isolati flop (La mummia) e l’abilità nel tenere a banda le tante ombre pubbliche e private dovute a Scientology. 

Badando alla sostanza del prodotto, in Top Gun: Maverick non c’è un congegno che non sia oliato a meraviglia, a cominciare da uno storytelling che non risparmia nulla della parabola dell’eroe archetipico, rimpianti e paternità mancate compresi, eppure riesce sempre ad ammantarsi di un senso di necessità e novità propulsivi e inviolabili, anche nella gestione gli orizzonti militari proposti (la missione consiste in questo caso nel volare a bassissima quota dentro una strettissima valle per distruggere una base di uranio arricchito in un paese imprecisato). Anche la colonna sonora che precede il brano inedito di Lady Gaga sui titoli di coda, Hold My Hand, poggia sulle pietre miliari eighties sopravvissute meglio e oggi più emblematiche, da Let’s Dance di David Bowie a Won’t Get Fooled Again degli Who.

Le sequenze in volo con dalla loro pochissima, sorvegliata computer graphic, da quelle che ci riportano con zelo filologico alle percezioni travolgenti dell’originale – potenziandole con tutti i mezzi odierni a disposizione e facendo perfino impallidire, a confronto, l’ebbrezza di allora – fino alle funamboliche rese dei conti conclusive, sono poi pezzi macroscopici di cinema dall’impatto audiovisivo stratosferico, da godere nella sala più confortevole possibile col miglior schermo e impianto audio a disposizione, dato che il lavoro sul sound design dentro e fuori gli aerei è e sensazionale, oltre che rombante e ansimante allo stesso tempo. 

A lasciare il segno ci pensano infine anche i duetti e le schermaglie amorose magnetiche di Cruise col suo vecchio amore Penny, madre single di una figlia che gestisce un bar per piloti (a interpretarla, in un re-casting ideale e fantasmatico di Kelly McGillis, c’è Jennifer Connelly), che nel loro corredo di malinconia per un passato mai vissuto appieno sono messe lì a ribadire come oggi – anche a Hollywood – non esiste recupero del vitalismo e dello stupore (e paracadute ideale) che non passi dall’accettazione di nostalgie e fragilità, essendo sempre il tempo, oggi come allora, il più grande nemico da combattere. 

Foto: Foto: Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions, New Republic Pictures

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