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Valerian e la città dei mille pianeti di Luc Besson è un luna park impazzito. La nostra recensione

Quella del regista francese è una postilla ad Avatar e Star Wars, coraggiosa e piena di stimoli creativi

Valerian e la città dei mille pianeti di Luc Besson è un luna park impazzito. La nostra recensione

Quella del regista francese è una postilla ad Avatar e Star Wars, coraggiosa e piena di stimoli creativi

I protagonisti di Valerian e la città dei mille pianeti

Il maggiore Valerian (Dane DeHaan) e il sergente Laureline (Cara Delevingne) sono due agenti speciali umani che nel 28° secolo hanno il compito di mantenere l’ordine nell’universo e far fronte a una minaccia radioattiva.

Una missione li porterà nella città di Alpha, una metropoli che non ha mai smesso di espandersi accogliendo, nel corso dei secoli, una quantità impressionante di specie: una babele inesauribile e pulsante,  il cui patrimonio non ha eguali per ricchezza e tradizione. La cui distruzione, dunque, non può che risuonare in tutto l’universo come un monito pessimista e struggente sul futuro della galassia.

Dopo una lavorazione lunghissima e travagliata, Luc Besson finalmente ce l’ha fatta a portare a termine questo progetto di fantascienza tratto dal fumetto di culto Valerian e Laureline di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières: un’odissea fantascientifica in 3D e ad alto budget (si parla della produzione europea più costosa di sempre, targata ovviamente EuropaCorp) animata da una grande ricchezza nel design dei fondali (tantissimi) e degli alieni (altrettanti), che dà alle tre dimensioni una ragion d’essere ormai sempre più unica che rara.

La confezione è leggiadra e fanciullesca, ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: a dispetto delle ambizioni apparentemente ridotte del risultato finale, Valerian e la città dei mille pianeti è il film che più punta in alto nella carriera recente del regista francese, di ritorno sui territori kitsch de Il quinto elemento, opera sci-fi in cui l’immaginario camp era corretto da una massiccia dose di ironia.

Valerian tuttavia, nel suo piccolo, si inscrive però soprattutto nel solco di Avatar e di Star Wars, dei quali punta a essere una sorta di postilla postuma. Soprattutto visto e considerato quanto il film di James Cameron abbia ispirato Besson e quanto George Lucas, a suo tempo, abbia nutrito la sua immaginazione proprio con le tavole di Valerian (il personaggio eponimo, oltretutto, è un  palese padre putativo di Han Solo).

Quella di Besson non è, dal canto suo, un’epica destinata ad entrare nella storia del cinema come le altre due opere, ma ne rappresenta piuttosto un controcampo ironico e infantile: un luna park naif dal quale è impossibile scendere e staccare gli occhi per tutto l’arco della sua durata, una giostra impazzita a bordo della quale può succedere di tutto, proprio come col Lucas più innocuo e lisergico (quello della nuova trilogia, in soldoni).

Ragiona sul divismo contemporaneo, Besson, grazie alla presenza fuori posto ma assolutamente stimolante di Cara Delevingne (con tanto di autoironia incorporata)  e a quella dolente e trasformista della clandestina Rihanna, ma anche sul sapere informatico-economico-bancario (lo spazio come iper-testo poroso, come database immateriale) e sulla sua fragilità intrinseca, di cui troppo poco ci occupiamo (un tema che, a sentire Denis Villeneuve, tornerà anche nell’imminente Blade Runner 2049).

Valerian si lascia insomma permeare dallo spirito del suo tempo e l’esito, che dal punto di vista estetico pare un Dune rivisitato dai Teletubbies, ne guadagna non poco, finendo col somigliare a un’anacronistica (e proprio per questo fallimentare, come testimoniato dal disastroso risultato al box-office USA) lettera tanto d’amore quanto d’odio allo spirito contraddittorio di un presente sfaccettato, ingiusto, incatalogabile. Di suo Besson ci mette soprattutto una notevole dose di appassionato coraggio a fondo perduto, sul quale molti si accaniranno con un astio fuori misura: l’amore che si può quantificare, dopotutto, è da elemosinanti.

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