Stona vedere seduti l’uno di fianco all’altro un regista tanto imprevedibile come Abel Ferrara («È strano come me» scherza Ninetto Davoli), che anche di fronte ai giornalisti non controlla il suo intercalare e infila un fuck dopo l’altro, e un attore posato, sorridente, quasi intimidito come Willem Dafoe.
Una coppia che pure tanto improbabile non è (è la terza volta che lavorano insieme) e che con passione si è dedicata a un progetto tanto ambizioso quale il biopic su Pier Paolo Pasolini (leggi la recensione).
«Forse è da 40 anni che sogno di fare un film su quest’uomo, da quando il suo Decameron mi ha folgorato. Ero un giovane e aspirante filmmaker e da allora, essendo buddhista, ho meditato a lungo su questo maestro». Una sfida che si è concretizzata solo un paio di anni fa quando Ferrara ha incontrato Ninetto Davoli per parlare di Pasolini. «Non solo gli abbiamo chiesto consiglio; lo abbiamo torturato! Abbiamo rubato pezzi del suo arredamento, usato i vestiti dell’epoca che ancora teneva nell’armadio… c***o, avevo a disposizione il suo migliore amico (nonché colui che ha dovuto riconoscerne il cadavere, ndr)» spiega il regista. Che rinnega di sapere chi ha ucciso Pasolini, come riportato da alcun i mezzi di stampa: «Chi ha scritto una tale bugia? Non so chi l’abbia ucciso, ma neppure mi interessa. Così come non mi interessano tutte le speculazioni e le ipotesi di complotto che sono seguite al suo assassinio. Il punto era cercare di parlare della sua vita, del suo lavoro, della sua passione e della sua compassione. Cito Pasolini: “La morte di ciascuno riflette la propria vita”. Ecco, siamo partiti da quest’idea».
Così come dalla volontà di raccontare un personaggio tanto controverso quanto coraggioso, che non ha mai tradito il suo pensiero, nonostante fosse costantemente nel mirino della critica e delle autorità giudiziarie. «Parliamo non solo di un genio intellettuale, ma di un uomo che ha vissuto sulla propria pelle la Salò che ha raccontato sul grande schermo e che ha dichiarato pubblicamente e liberamente la propria omosessualità in un’epoca in cui questa era uno dei tanti tabù» prosegue ancora Ferrara, che ha affidato a Dafoe l’onore e l’onere di interpretare un tale «diamante, luminoso e illuminante in ogni sua sfaccettatura: il Pasolini intellettuale, l’attivista politico, il figlio devoto e il gay dichiarato».
«La cosa fantastica di questo regista è che ti trasforma in un collaboratore» confessa l’attore di L’ultima tentazione di Cristo, che proprio sul set di quel film ha “incontrato” per la prima volta Pasolini: «Scorsese mi chiese di vedere Il vangelo secondo Matteo per prepararmi al ruolo». Dafoe non nega le difficoltà e la responsabilità che sentiva su di sé ogni volta che indossava gli abiti e gli occhiali scuri del regista, anche se «durante la lavorazione non mi sono sentito un interprete, piuttosto una creatura di Abel di fronte alla macchina da presa. Ho cercato di abitare i pensieri di Pasolini, le sue passioni, la sua vita, entrando in un dialogo personale con la sua dimensione pubblica e soprattutto con quella privata e la semplicità dei suoi gesti quotidiani».
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