Venezia 71: «Leoperadi ci ha fregato tutti». Elio Germano è Il giovane favoloso

Applausi per il film di Mario Martone che - come il poeta di Recanati - si è tuffato insieme all'attore in uno studio matto e disperatissimo

«Non mi ero mai preparato così a lungo per un personaggio. Quasi mi è dispiaciuto abbandonare la lunga fase di studio matto e disperatissimo per iniziare le riprese». Elio Germano è rilassato e visibilmente compiaciuto, come del resto lo sono il regista Mario Martone e il resto del cast, accolti calorosamente sia in sala (molti gli applausi alla proiezione di questa mattina) sia in conferenza stampa. Quasi a farlo apposta, in una Venezia funestata dalla pioggia e malinconica il grande protagonista della giornata è Giacomo Leopardi, poeta infelicissimo che Martone racconta ne Il giovane favoloso (leggi la nostra recensione). E che non ha bisogno di presentazioni, almeno in Italia. «In Francia, invece, quasi nessuno lo conosce» confessa l’attrice Anna Mouglalis, che interpreta Fanny Targioni Tozzetti, nobildonna fiorentina per la quale il vate di Recanati nutrì, non corrisposto, una certa passione.

Il film ricostruisce – meglio, ricorda – l’esistenza, il pensiero e la malattia di questo cantore della vita a partire dalla rigidissima educazione impartitagli insieme ai fratelli Carlo e Paolina (Isabella Ragonese) dal padre Monaldo fino all’incontro con l’esule napoletano Antonio Ranieri (Michele Riondino), con il quale instaurò un rapporto tanto viscerale da risultare ambiguo, quasi omosessuale. «Forse è un po’ eccessiva come definizione, ma certo, loro vivevano in simbiosi, dichiarandosi l’amore e il bisogno l’uno dell’altro ogni giorno. Ranieri ha scritto dell’amicizia fraterna con Leopardi in due libri autobiografici, quasi avesse previsto che un giorno un attore come me ne avrebbe avuto bisogno per interpretarlo».

Una “selezione” quasi obbligata, vista la mole di aspetti legati a Leopardi su cui si potrebbe romanzare, dettata dalla volontà condivisa dal regista e dalla sceneggiatrice Ippolita Di Majo «di attenersi ai documenti ufficiali e a quello che le carte raccontano, senza sovrapporre ulteriori interpretazioni e lasciando volutamente aperta e sfocata quell’aura di mistero che da sempre circonda questo personaggio». Nel quale Elio Germano si è calato emotivamente e fisicamente, consapevole di dover reggere sulla sua gobba l’intero film. «Sapevo che sarebbe stata un’esperienza violenta – per il pubblico e per me – dare carne, fisicità e voce a un artista tanto affascinante proprio perché indefinito. Ho pensato che l’unico modo possibile per farlo fosse quello di farsi tramite, senza la presunzione di poter esaurire il personaggio con l’interpretazione, ma provando semplicemente a veicolarlo, così come lui usava la poesia per trasmettere la sua visione e sensazione del mondo. La poesia, a volte, è l’unico modo per dire una cosa».

Germano assume lo sguardo curioso e allucinato di Giacomo («Ormai lo chiamiamo per nome, quasi fosse uno di famiglia» scherza l’attore), così come la postura reclinata e ingobbita, con la libertà e l’istinto di chi è riuscito a entrare realmente nella pelle del personaggio, «facendo mie le sue parole e affrontando ogni giorno il set con un bagaglio ricchissimo derivato proprio dal lungo lavoro di preparazione, che andava al di là dei testi inseriti nella sceneggiatura».

Il risultato – raggiunto rimettendo spesso le mani in pasta anche nel momento delle riprese; «del resto, pensate a quanto rimeditava, ripensava, rimasticava ogni singola parola lo stesso Leopardi» suggerisce Martone – è un film aristocratico e rigoroso nella sua messa in scena quanto poetico nella scelta delle immagini e nelle espressioni silenziose del suo interprete, riempite dal suono dei versi più celebri dell’opera leopardiana. «Volevamo che in qualche modo la poesia facesse parte dell’azione del personaggio. Poteva succedere che finita di girare una scena Elio iniziasse a recitare L’infinito, senza che io gli dicessi niente: entrambi la sentivamo come necessità».

Sarà anche per questo modo di riuscire a integrare perfettamente i versi all’intero della sceneggiatura, che Il giovane favoloso, pur riportandoci nella prima metà dell’Ottocento, risulta comunque contemporaneo per l’attualità dei temi trattati (vedi il discorso sull’infelicità delle masse). «Credo che il messaggio di Giacomo – avendo lui preso come riferimento se stesso, ma parlando in generale dell’umanità – sia senza tempo» commenta Germano. «Non c’è un periodo storico in cui il pensiero di Leopardi non funzioni. È chiaro, però, che le stesse parole rilette in epoche diverse ci fanno specchiare in maniera altrettanto diversa. Il neo-scetticismo ragionato è tale per cui l’essere umano per qualsiasi progresso possibile non potrà mai liberarsene. Giacomo ci ha fregato così!».

(Foto: Kikapress)

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