Freaks Out: la recensione del film di Gabriele Mainetti

Arriva finalmente nelle sale l'attesissima opera seconda del regista de Lo chiamavano Jeeg Robot. Nel cast Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Claudio Santamaria, Giancarlo Martini, Giorgio Tirabassi e Franz Rogowski

Freaks Out recensione
PANORAMICA
Regia (4)
Sceneggiatura (2.5)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (3)
Montaggio (4)
Colonna sonora (2.5)

C’è una guerra sporca che brucia il mondo e i diversi. In quella guerra sporca c’è un circo e dentro al circo quattro freaks che strappano sorrisi all’orrore. Matilde (Aurora Giovinazzo) è la ragazza “elettrica”, Fulvio (Claudio Santamaria) l’uomo lupo, Mario (Giancarlo Martini) il nano calamita, Cencio (Pietro Castellitto) il ragazzo degli insetti. A guidarli è Israel (Giorgio Tirabassi), artista ebreo e “terra promessa”, che ha inventato per loro un destino migliore. 

Assediati dai nazisti, che hanno occupato Roma e soffocato ogni anelito di libertà, decidono di imbarcarsi per l’America ma inciampano nell’ambizione divorante di Franz (Franz Rogowski), pianista tedesco e direttore artistico del Zirkus Berlin, con troppe dita e poco cuore. Strafatto di etere, Franz vede il futuro e vuole cambiarlo: la Germania non perderà la guerra. A confermarlo sono i suoi deliri, a garantirlo i superpoteri di Matilde, Fulvio, Mario e Cencio. A Franz non resta che scovarli.

La sfida che Gabriele Mainetti si è sobbarcato con Freaks Out è considerevole: dopo il successo a sorpresa de Lo chiamavano Jeeg Robot, prototipo anche suo malgrado di nuova via italiana al cinecomic “di borgata”, questo kolossal nostrano totalmente bigger than life rispetto agli standard produttivi, industriali e artistici italiani è un azzardo ben più grande e che tuttavia mantiene intatta l’anima del film precedente, forte di un abito formale di gran fattura e di un artigianato di livello altissimo e a tratti impressionante. 

Anche in questo caso, infatti, i protagonisti sono dei reietti espulsi, probabilmente fin dalla tenera età, dalla vita sociale, dei bizzarri saltimbanchi che trovano nel circo il loro unico territorio d’elezione e d’espressione. Dei Fantastici 4 nei quali una di loro, Matilde, che finirà con l’essere una sorta di Fenice degli X-Men, è una giovane donna-lampadina chiamata e illuminare la via, a suggerire la strada maestra del sentimento per far fronte alla rozzezza scalmanata degli altri membri del gruppo, più selvaggi e tutti d’un pezzo nell’esposizione dei loro istinti bassi e nell’abitare uno strampalato e scombiccherato posto nel mondo. 

Matilde fa tutto ciò, in Freaks Out, pur tra le mille insicurezze che la riguardano, ed è un esempio di resistenza femminile ostinata ed efficace anche quando impreparata come lo era l’Alessia di Ilenia Pastorelli ne Lo chiamavano Jeeg Robot. Il suo punto di vista è il cuore morale del film e Mainetti la utilizza non a caso come sommo veicolo di poeticità spielberghiana, come piccolo, tenero faro di tutta la sua operazione titanica. Lo sfondo è quello di una pagine più nere del 20esimo secolo, mentre Freaks Out è al contempo avventura, spettacolo pirotecnico e dinamitardo, war movie e coming of age, con a fare da collante una smisurata, spassionata e perfino commovente adesione emotiva e identitaria alla nozione di diversità. 

Con queste premesse si fa davvero fatica a uscire delusi dalla sospirata opera seconda di Mainetti: la messa in scena è un congegno a orologeria dove ogni dettaglio rispecchia forsennatamente tutta la passione del suo autore per la materialità flagrante degli immaginari pop e ciò che ne viene fuori è una sorta di ottovolante che somiglia a poche altre cose, di macabro luna park in cui la post-adolescenza circense è parco giochi ma anche scatola degli orrori. 

C’è talmente tanto di tutto, in Freaks Out e nella sua idea performativa di cinema e intrattenimento popolare, che talvolta l’apparato messo in campo pare mangiarsi perfino la storia e i personaggi, producendo un andamento narrativo che a tratti è di una compattezza un po’ monocorde e in altri casi un po’ esile e sbalestrato. Assolutizzare quest’aspetto della sceneggiatura di Mainetti e Nicola Guaglianone vorrebbe però dire fare un torto a una visione d’insieme letteralmente da far tremare i polsi, per coraggio e coscienza dei propri mezzi, per avventatezza e spudoratezza passionale; basti pensare anche solo all’elettrizzante e supersonico dispiegamento di mezzi e alle tantissime linee dinamiche d’azione dell’immane scontro finale. 

Freaks Out dura 141’ ed è una durata che colloca le ambizioni di Mainetti dalle parti dei grandissimi, dei Leone (come confermano anche i titoli di testa e le loro sonorità) e dei Tarantino, visto che alla fine della fiera siamo di fronte anche a una sorta di risposta favolistica e utopica – ma tutt’altro che esclusivamente solare – alla vena apocrifa di Bastardi senza gloria. Tagliare ulteriormente le quasi tre ore di montaggio iniziale avrebbe forse giovato a smussare certe lungaggini ma avrebbe anche tolto linfa a tale slancio, che per il nostro cinema non può che essere un balsamo e un esempio da imitare di dolce e feroce irruenza stilistica, in virtù della quale le carneficine sono filmate con lo stesso amore certosino che si dedica ad esempio al bellissimo personaggio di Giorgio Tirabassi e si fondono insieme anacronismi con nazisti da fumetto che cantano Creep dei Radiohead e primissimi modelli di iPhone che sono portali su un futuro forse ancora tutto da scrivere. 

Freaks Out, e non è certo un caso, parla anche dell’eterno conflitto tra l’auto-assoluzione vittimista e la presa di coscienza delle proprie possibilità, tra il vivere ai margini come outcast e ritrovarsi a essere nonostante tutto eroi e deus ex machina di una possibile liberazione. Parla di mostri che agiscono come uomini e uomini che si comportano da mostri, certamente, ed è a suo modo anche un’armata Brancaleone per millennial che ha tutte le carte in regola per scaldare il cuore di più generazioni e spettatori, tra vertigini ipercinetiche e stratificazioni liriche sicuramente in grado di crescere in modo esponenziale visione dopo visione.

Il tutto in un raro, rarissimo esempio di cinema fantastico e del/sul fantastico tutto italiano, che prende solo le mosse dai fondali del neorealismo per fare piazza pulita di ogni eredità nobile del passato e inseguire esclusivamente la propria gioiosa, ostinata, adolescenziale idea di folgorazione.

Foto: Goon Films/Lucky Red/Rai Cinema

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