Venezia 78: Last Night in Soho di Edgar Wright, la recensione

Il regista della Trilogia del Cornetto porta Fuori Concorso a Venezia un'eccitante e ritmata immersione nella Swinging London, con più di qualche lato oscuro. Nel cast Anya Taylor-Joy, Thomasin McKenzie e Matt Smith

Last Night in Soho
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (2)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (4)

Eloise (Thomasin McKenzie), ragazza della campagna inglese che sogna di diventare una fashion designer, riesce misteriosamente a catapultarsi negli anni Sessanta dove incontra Sandie (Anya Taylor-Joy), un’aspirante cantante dalla chioma biondissima e di grande fascino. Ma il glamour non è esattamente quello che sembra: i sogni del passato iniziano a infrangersi e approderanno a qualcosa di molto più oscuro.

Edgar Wright è senza dubbio uno dei registi più ludici del cinema contemporaneo. La sua anima nerd, in primis ne la Trilogia del Cornetto che ha contribuito a renderlo un regista di culto per molti, è tutta nel senso di leggerezza, contagiosa e alcolica, con cui Wright ha sempre affrontato le sue storie. Last Night in Soho è, in parte, una virata non indifferente versi territori più cupi e accidentati, ma anche un ritorno a casa, a Londra, ai fantasmi e ai moti primari dell’ispirazione che l’ha formato. Eppure, al netto di tutto, la sensazione è che la sua leggiadria non sia affatto venuta meno neanche qui, sospinta oltretutto dal vento fittissimo di una trascinante e dorata colonna sonora dove trovano posto (ovviamente) The Kinks ma anche Petula Clark con la sua Downtown, James Ray e tantissimi altri.

Il film, tratto da una sceneggiatura scritta da Wright con Krysty Wilson-Cairns, nasce dal desiderio di raccontare una storia su Central London, che è stata la casa adottiva di Wright per gli ultimi venticinque anni e che lui, nativo di Somerset, ha frequentato anche da adulto. È un racconto sulla carta estremamente dark e immaginifico ma è soprattuto una lettera d’amore a un decennio memorabile, gli anni ’60, in cui Soho, quartiere londinese del West End in cui sorge anche Piccadilly Circus, era davvero il centro dell’universo e della gentrificazione non c’era ancora traccia. Quasi ogni immagine racconta la gioia dell’evocare un tratto, un ricordo e una trovata, e come tale è un film in cui ogni dettaglio è un correlativo oggettivo tanto della memoria malinconica di un tempo mai vissuto, per Wright che è nato nel ’74, quanto il portale per addentrarsi in spazi pericolosi e insondabili e in giochi di specchi moltiplicabili all’infinito. 

La protagonista, interpretata da una Thomasin McKenzie in bilico tra il lampo della scream queen e la purezza candida di una musa da teen movie, un po’ aspirante Marilyn e un po’ E.T., è il cuore pulsante di un’immersione rutilante che non teme di squarciare ogni parete per vedere cosa, di mortalmente inquietante, si cela dietro ogni svolazzo e lustrino. Da amante dell’horror Wright sa bene che non c’è nulla di più temibile di ciò che è alla luce del sole e che magari si mostra a noi in tutta la sua pirotecnica magia. E Last Night in Soho, che è una sorta di film-opera fatto tutto di scene forsennate vissute e girate a mille all’ora, è una perfetta evocazione di questo sentimento dello stare al mondo e di una precisa postura nel pensare al cinema, alle immagini, al décor d’epoca e ovviamente anche al puro cinema di genere (non solo, dunque, un film musicale di alta fattura artigianale sulla Swinging London al tempo in cui in sala davano Agente 007 – Thunderball (Operazione tuono)).

Tutto si consuma nell’evidenza sfacciata e infantile di un gioco a carte scoperte con lo spettatore, nel quale è una dolcezza velata di strani e oscuri misteri a dettare legge, aprendosi anche a un epilogo in cui la consapevolezza del dolore e l’assedio dei fantasmi della realtà si fa totale, lavorando anche su sequenze puramente gore.

Un’operetta a tratti esile, perlomeno nei rari casi in cui c’è esclusivamente da portare avanti il racconto – davvero un mero orpello, a conti fatti – con una certa artificialità, ma mirabile e nei momenti migliori perfino luminosa quando c’è da farsi inghiottire dentro una crepa che può rivelare infinite insidie e mondi fantastici e terribili. Nemmeno troppo incidentalmente, Last Night in Soho diventa così anche un monito per sognatori troppo frettolosi e incauti, mostrando loro cosa li aspetta ad abbandonarsi in maniera eccessivamente cieca e dimentica delle conseguenze alle loro passioni. 

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