Venezia 78: Qui rido io di Mario Martone, la recensione

Il regista porta in Concorso a Venezia 78 il film dedicato alla tumultuosa e vitale figura del re delle commedie popolari nella Napoli della Belle Époque d'inizio '900, Eduardo Scarpetta, interpretato da Toni Servillo

Qui rido io
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3.5)

Agli inizi del ‘900, nella Napoli della Belle Époque, splendono i teatri e il cinematografo. Il grande attore comico Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è il re del botteghino. Il successo lo ha reso un uomo ricchissimo: di umili origini si è affermato grazie alle sue commedie e alla maschera di Felice Sciosciammocca che nel cuore del pubblico napoletano ha soppiantato Pulcinella. Il teatro è la sua vita e attorno al teatro gravita anche tutto il suo complesso nucleo familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. 

Qui rido io, il biopic che Mario Martone ha dedicato a Eduardo Scarpetta e presentato in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2021, è un’operazione di ingegno che si cimenta con la sfida di raccontare un uomo di teatro soprattutto – e in modo a tratti esclusivo e privilegiato – attraverso il dispositivo delle sue performance sul palcoscenico. Come tale, anche se potrebbe apparire un film biografico d’impostazione tradizionale, è un atto d’amore filologico a dir poco traboccante e sentito, che scava nelle radici della cultura partenopea con affetto e insieme con acutezza. 

Il film racconta soprattutto del momento in cui, al culmine del successo, Scarpetta si concede quello che si rivelerà un pericoloso azzardo. Decide di realizzare la parodia de La figlia di Iorio, tragedia del più grande poeta italiano del tempo, Gabriele D’Annunzio (interpretato da Paolo Pierobon). La sera del debutto in teatro si scatena un putiferio: la commedia viene interrotta tra urla, fischi e improperi sollevati dai poeti e drammaturghi della nuova generazione che gridano allo scandalo e Scarpetta finisce con l’essere denunciato per plagio dallo stesso D’Annunzio. Inizia, così, la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia. 

Se già il precedente Il Sindaco del Rione Sanità, rilettura moderna dell’opera di Eduardo De Filippo, era stata per Martone una libera digressione sulla teatralità partenopea attraverso uno spazio chiuso e un ingranaggio tutto di tensione e scrittura, Qui rido io è per il regista un po’ un film già incorporato nei suoi trascorsi cinematografici e teatrali, crocevia di un’intera carriera e appuntamento con ogni probabilità a lungo sognato e rimandato, visto che Servillo e Martone lavorano tra l’altro insieme da più di trent’anni con il gruppo Falso Movimento e con Teatri Uniti. 

Qui rido io è però soprattutto un film che indaga, con vitalità prorompente e un gusto raffinatissimo nella messa in scena d’epoca, quanto di teatrale ci sia nella vita e quanto di vitale abiti nelle pieghe del teatro. Scarpetta era un uomo scostante, geniale e infedele e il lungometraggio non ne nasconde i tratti caratteriali più sgradevoli, utilizzando gli anni del processo con D’Annunzio, logoranti per lui e per tutta la famiglia, come un lasciapassare per indagare i confini tra teatro d’arte e teatro popolare. Come mostra in modo evidente il bellissimo dialogo tra Scarpetta e il Benedetto Croce interpretato da Lino Musella, che scomoda Amleto e il conte Ugolino per spiegare allo stesso Scarpetta la sua grandezza lontanissima da ogni prostrante senso del tragico. Per non parlare di come emerga in modo evidente anche il conflitto insito nel patrimonio culturale di un paese da sempre sospeso tra il riso amaro della commedia all’italiana e le tentazioni neorealistiche dell’impegno civile nobile e armonioso.

La fluidità di Qui rido io, e la sua potenza, stanno anche nell’oscillazione selvaggia ed ebbra di connessioni e rimandi tra le opere e l’esistenza dello stesso Scarpetta, che il film ci propone come un unicum inseparabile e che tradisce tanto l’umoralità selvaggia e indispettita dell’uomo quanto il bisogno disperato e spasmodico di riconoscimento popolare dell’artista. Una nota di merita spetta poi al modo in cui Martone e la co-sceneggiatrice Ippolita di Maio hanno immortalato il personaggio del piccolo Peppino De Filippo (Salvatore Battista), cuore morale dello sguardo del film ed erede in assoluto più denso di ombrose e contraddittorie malinconie e insoddisfazioni all’interno della famiglia materiale e artistica di Scarpetta, che non riconobbe mai né lui né i fratelli Eduardo De Filippo (Alessandro Manna) e Titina De Filippo (Marzia Onorato). 

Nell’ultima parte fa capolino anche l’avvento del cinema, contro il quale Scarpetta oppone la sua più feroce resistenza provando a castrare le ambizioni del figlio Vincenzo Scarpetta (Eduardo Scarpetta), ma è proprio l’aula di tribunale a diventare il palcoscenico d’elezione dello spirito salace e dissacrante di Scarpetta. Un personaggio, in definitiva, che Martone non teme di elevare a simbolo di un’epoca dal sorriso e dalla maschera buffonesca e anarchica, approdando a un congedo che per lo spettatore somiglia davvero alla fine di un’epoca e di un modo, schietto e frontale fino allo sfinimento delle forze creative e delle ambizioni personali, di dialogare col pubblico da pari a pari.

Foto: Indigo Film/Rai Cinema/Tornasol

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