Wonder Woman 1984, il ritorno della supereroina DC tra mélo e psichedelia. La recensione

Arriva anche al cinema il sequel del grande successo della DC con Gal Gadot, Chris Pine, Kristen Wiig e Pedro Pascal, nuovamente diretto da Patty Jenkins

Wonder Woman 1984
PANORAMICA
Regia (3)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (2.5)
Montaggio (3.5)
Direzione della fotografia (2.5)
Colonna sonora (2)

Già il Wonder Woman di quattro anni fa sembrava arrivare direttamente da un’altra epoca. Il primo film standalone su una supereroina nel nuovo corso dei cinecomic contemporanei non solo coniugava la Prima guerra mondiale al racconto di amazzoni e dèi, ma recuperava anche a suo modo la purezza del Superman di Christopher Reeve. Guardava già, con occhi non nuovi ma anche con nostalgia meno ingombrante che altrove, a quel cinema anni ’80 la cui ingenuità naïf ci sembra oggi merce irresistibile: una sorta di Sacro Graal perduto all’insegna della leggibilità istantanea di ogni complessità, non solo il distillato di un greatest hits di sogni nerd.

Se il primo lungometraggio con Gal Gadot nei panni di Diana Prince era squisitamente eighties ma lo era evidentemente sottobanco, pur essendo diverso dai toni cupi e foschi del DC Extended Universe, il decennio d’ambientazione in Wonder Woman 1984, funestato come altri blockbuster dai rinvii dovuti alla pandemia e uscito negli USA a Natale, è diventato inequivocabile fin dal titolo. Con una scelta di campo molto deterministica a livello temporale, non comune tra film che cercano di parlare a tutti a prescindere da anagrafe, ceto, sesso, passioni.

A dirigerlo torna Patty Jenkins, che lo sceneggia insieme a Geoff Johns e David Callaham, il mix di generi è analogo ma c’è uno slittamento sostanziale e decisivo verso il romance, molto più forte stavolta sia dello humour che dei conflitti storici (una vaga Guerra Fredda, 70 anni dopo la Grande Guerra del primo film). Una tenerezza che fa il paio con l’idealismo fuori moda del primo film e ha, però, il pregio di scegliere una via univoca al cinefumetto, quella di una grana vintage che non si limita a riportarci indietro negli anni, ma ci restituisce un sentimento del tempo. Se il genere sconta spesso il limite di mescolare troppi mood, aderendo alla dittatura dell’eclettismo a tutti i costi, stavolta a illuminare l’operazione c’è un’economia dell’emozione più misurata e soffusa, e proprio per questo non opaca.

Non la respiriamo solo nella più velata vena camp, che fa degli anni ’80 molto più di un pozzo senza fondo da cui attingere per citazioni e yuppismo rampante, ma soprattutto nel legame tra Diana Prince e lo Steve Trevor di Chris Pine, riempito con dolcezza da un’intimità che si prende il tempo necessario per il lusso del dialogo e della condivisione, prima di arrivare ai momenti forzatamente strappalacrime.

Tutto il film ha questa schiettezza: i dialoghi rispetto alla media dei cinecomic sono girati in modo molto limpido e classico (una rarità, più che una sorpresa) e anche le scene d’azione, dalla rapina al centro commerciale al luminoso prologo che ci riporta a Themyscira durante i giochi in onore di Asteria, sono snelle a tal punto da risultare talvolta blande e deficitarie, archeologiche tanto quanto la professione di Diana alla Smithsonian Institution. Al servizio esclusivamente delle evoluzioni accecanti e dorate del Lazo della Verità, ma disinteressate a costruirvi intorno coreografie particolarmente elaborate.

Non il massimo, per il tipo di proposta cinematografica e sul fronte della sospensione dell’incredulità delle sequenze più spettacolari, ma una scelta espressiva in linea con il desiderio di dare alla protagonista una rilevanza, come donna e come icona. Qualcosa che il primo film aveva esibito più sul piano della comunicazione extra-testuale e della ricezione presso gran parte del pubblico e della critica, ma mancato di fatto sul piano cinematografico.

In quel caso Diana era il collante di un carrozzone più ampio ma anche più faticoso, mentre qui vederla vivere esclusivamente nel ricordo del suo primo e unico amore, alla faticosa ricerca di una verità personale e dunque più ampia, rende Wonder Woman 1984 un efficace completamento del primo film, che ci restituisce quantomeno ciò che in quel caso mancava: un cuore, una proporzione e un immaginario. Un femminismo che tocchiamo con mano anche nelle incrinature, e nelle debolezze.

A Wonder Woman 1984 sembra interessare però soprattutto la messa in crisi dell’individualismo: come film non ha nessuna velleità, non teme di maneggiare sequenze urbane che sembrano uscite da un Superman di Richard Donner, si accontenta beato, non ha strilli, è essenzialmente cinema per ragazzi (al massimo più di ieri che di oggi). Il demone della mitomania tutta contemporanea è però ciò che pervade i suoi villain: la Barbara Ann Minerva di Kristen Wiig, timida geologa e cripto-zoologa che diventerà la temibile Cheetah (per la nemesi vera e propria toccherà aspettare il terzo capitolo: per il momento c’è poco più di una origin story) e l’uomo d’affari Maxwell Lord di Pedro Pascal, sorta di Ronald Reagan filologicamente anni ’80 in cui è stata inserita a forza l’ombra di Donald Trump, a mo’ di malsana parodia.

La banalità di pietra dei loro idoli e desideri (Barbara vuole essere bella, prorompente e di successo come Diana, Max Lord è un televenditore con mire ancora più prosaiche) fa a pugni con la sincerità smielata ma limpida dei fuochi d’artificio visti in condizioni particolarmente avventurose e appartate con la persona amata da Diana e Steve. Un momento che genera anche la sequenza più bella del film ed è, un po’ come tutto Wonder Woman 1984, un punto d’incontro non indispensabile ma comunque prezioso e insolito tra mélo e psichedelia.

Foto: Warner Bros. 

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