“Apes Revolution. Il Pianeta delle Scimmie” (2014) è il quarto lungometraggio del regista statunitense Matt Reeves.
‘Cesare non deve morire’. Non può morire chi da il là e chi rimuove il giro dell’immaginario. E l’inquadratura iniziale non può che essere rivelatrice di un gioco (odioso) già scritto e recitato nello sguardo di pupille accese per lo spettatore ma restie di assedio e di un odio-amore recondito e per nulla acerbo, giammai virulento ma certamente blasfemo nei sogni di antesignani (o forse antenati) di un cinema di rigetto, fasulla-mente vero e veramente idoli-zzato nel falso di ogni opera (che non fu) prima.
Certo è che l’entertainment c’è ed operante per tutta la storia ma si ha la sensazione di un qualcosa ‘monco’ cioè appositamente (ed intelligentemente) preparato per qualcosa che deve venire e succedere, di un trascorso utile all’ingegno (in durata) spettacolare per uno spettatore avvizzito e affascinato, succube e ammaliato. Tutto per ciò che bisogna (e forse) realmente attendere (ed ecco che la preparazione di un sequel con stesso regista spiega o forse ingigantisce l’operazione filmica) mentre il da farsi lascia un segno di chiusura a ciò che rimane indietro e a quello che il gioco promette e non mantiene (soprattutto nel pre-finale macchinosamente perfetto) in un andirivieni di richiami cine evidenti e per nulla fatti da parte.
E allora uno si chiede o meglio archivia domande sufficientemente obbligate, per quale motivo non si riesce ad estraniarsi da spifferi reconditi di stili già chiari come di spasmi immaginifici speranzosi dal nulla per dire soltanto che di originale è poco più di un nefasto mondo post-scrutato e mal volentieri digerito mentre il sornione pianeta di scimmie (indecorosamente postulanti di segni darwinamente spenti) rinviene in un meta-bondo schiumoso-cadaverico frondoso forestale mentre l’uomo infettato (e resistente alla vita) si ritrae in chiuso per feste e allegrie per (poco) studiare il limite del suo agire e contraddire la nemesi di un contatto vero tra scimmia (antropomorfologicamente parlante) e Homo-sapiens (ideologicamente spento) che arriva (certo che arriva) con un lustro spaesato e con ornamenti filiali che spaziano il cuore neuronico per chi si compiace di poco) ma falliscono (miseramente) le voglie ancestrali di una commozione interiori-zzabile per viscere spudorate mentre il post-evoluzionismo arringa e soggiace, acclara e dimena la propria forza in un connubio d’incontro accattivante per chi vuole e non desidera che altro ciò che si mostra (e non certamente quello che si pretende di dire).
E sì che pare lontano il gioco ‘da studio’ ma la voglia di assecondare lo spirito dello spettatore sprovveduto per un film che promette moltissimo ma che alla fine dice poco. O meglio dice di uno spettacolo d’intrattenimento e nulla più. D’altronde gli occhi di Cesare e il suo ghigno (feroce? E poi a chi?!) lasciano il campo ad un recitazione d’animali parlanti e il deja-vu rimane impresso per tutta la durata della pellicola fino al fermo immagine finale (e chi di manifesto dice…di manifesto non muore). Un circolo vizioso. Jurassic-amente carpito (come far vedere altro furbamente) in un parco giochi di confini sfiorati (come far sentire altro nel subbuglio de ‘il mondo perduto’) dal lancio verso lo schermo (come ossa da scrutare) degli ‘antenati’ scimmia nell’incipit postulante (vero o da discutere) di ‘2001 Odissea nello Spazio” (1968) di Stanley Kubrick. E il simbolismo accattivante dell’uomo che incontra se stesso tra presente e (lontano) passato) rimane puro ma essenzialmente sterile. E il vociare di un ‘antenato-scimmia’ cadenza ancor di più la supponenza orgiastica di un contatto oltre le intenzioni (forse) e alquanto supponente. Tutto vacuo e tristemente attendi stico per un successivo capitolo (ma a tutt’oggi, mentre i pianeti e le scimmie si susseguono, il film di Franklin J.Schaffner del 1968 -‘Planet of the Apes- rimane il migliore e una spanna -oltre- di questa ultima pellicola e di altre nel circondario).
Naturalmente non mancano lotte fratricide e armi libere, Cesare e Koba (l’antesignano che non ‘può morire’ perché già ucciso e il ‘mostro’ dittatore K. che del secolo scorso militò in epopea), ambientalisti e miscredenti, laicismo e fanatismo, mutuo soccorso e medici senza frontiere. Manca altro? Chi sa cosa inventeranno nel prossimo. Troppe allusioni e piccole verità, troppi giochi che paiono verità e troppi luoghi comuni spacciati per antropologismo puro e vergine. Uno spreco di nomi per complicazioni forvianti (forse non voluti ma i nomi…diranno pur qualcosa) da pochi spiccioli.
Il cast resta in linea di ciò che si vuol dire; d’altronde il barcamenare della ‘famiglia’ padre-madre.figlio tra i primati (per questioni meramente scientifiche-energetiche-idriche) resta come antitesi di facile lettura di incontri-scontri tra passato (presunto) e presente (irreale) di contatti e solidarietà confacenti, dinamicamente i-statici mentre lo sguardo cinematografico appare facilmente visibile nell’atrio-ne (poco roboante) di un ‘park’ già detto e di tempi (in controtendenza d’era) già calcati. E’ diretto l’occhio a ciò che il regista di Cincinnati aveva profuso e sollevato qualche lustro fa.
Jason Clarke (Malcom), Keri Russell (Ellie) e Kodi Smit-McPhee (Alexander) un trio normale in un contest eccezionale…fa che quello che si disegna ma l’introspezione (darwiniana…o quella che di essa si vorrebbe) appare alquanto ritrosamente piatta e lievemente retrò (cinematograficamente d’avventura ricalcata in quel modo di farcelo vedere come già visto e (oramai) immaginario (di molti) so(a)porifero. E che dire degli sguardi (umanizzati da attori) di Cesare (Andy Serkis) e Koba (Toby Kebbell) che sfidano lo schermo come ancestral-mente prodi-guerrieri-scaltri di reminiscenze antiche-postmoderne in un connubio ‘castrante’ fra odio virulento e riappacificazione succulenta (mentre depositi e armerie piangono il loro riposo). E il firmamento umano (pieno di grandi contraddizioni) giammai…..mai cambiato.
Da sottolineare la messa in scena non banale con alcune (poche) immagini (foto) di una San Francisco decrepita e distrutta dallo ‘scientismo’ del primate ‘homo’ con una fotografia ritualmente triste con colori ammorbiditi e offuscati dal grigiore (del neozelandese Michael Seresin già collaboratore del regista Alan Parker -‘Fuga di mezzanotte’, 1978 e ‘Birdy’, 1984-). Inoltre le musiche invoglianti e accattivanti del compositore Michael Giacchino del New Jersey (tra l’altro premiato con l’Oscar per ‘Up’ nel 2010) che soverchiano le immagini e lo script (allargando una tensione narrativa) poco incisivo e, alla fine, alquanto congruo alla regia (ciò che vedi è ciò che non rischi di non vedere) molto smossa e, soprattutto, mista a decodificare il narrato lento.
Voto: 5/6.