Argo: la recensione di Camilla Di Spirito

Diceva Wilde: “Ci sono al mondo due categorie di individui: coloro che credono nell’incredibile e coloro che fanno l’improbabile.” Alla seconda certamente appartiene l’agente della CIA Tony Mendez, l’unico in grado di salvare, a Teheran nel bel mezzo della rivoluzione del ’79, sei funzionari americani spacciandoli per membri di una troupe canadese in trasferta per un sopralluogo. L’assurda impresa, messa in piedi con l’aiuto di un truccatore e un produttore hollywoodiani, pur avendo riscosso il risultato sperato, è stata tenuta nascosta fino al ’97, divenendo a distanza di più di trent’anni il soggetto della terza regia di Ben Affleck.
Argo (dall’ironico nome dell’operazione) non è il classico film di spionaggio, ma è un riflettore puntato su un fotogramma di storia, che racconta dell’umanità in rivolta e di quella in ostaggio, della furia della rivoluzione e della paura di chi viene travolto da questo fiume in piena, che si tratti di prigionieri o liberatori. Sotto un’apparente visione manichea della situazione, emergono sfumature delicate. Innanzitutto Mendez, viene ritratto, oltre che come agente, come marito e padre sofferente per la lontananza dalla sua famiglia. Hollywood, tempio della frivolezza e dell’egoismo, si rivela capace di tendere una mano. La violenza e l’irruenza dei rivoltosi iraniani sfuma nella pacata fedeltà della giovane cameriera dell’ambasciata. Il quadro presenta dettagli rilevanti che scorrono sullo sfondo, ma sopra tutti si staglia la potenza e il coraggio del sacrificio, del rischiare la propria vita senza prospettive di onori o gloria immediati. Una bella lezione, che suona dolcemente discordante rispetto al cinismo dei giorni nostri.

© RIPRODUZIONE RISERVATA