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Beautiful Boy, la recensione

Il film è diretto dal regista di Alabama Monroe Felix Van Groeningen, e interpretato da Steve Carell e il Timothée Chalamet di Chiamami col tuo nome

Beautiful Boy, la recensione

Il film è diretto dal regista di Alabama Monroe Felix Van Groeningen, e interpretato da Steve Carell e il Timothée Chalamet di Chiamami col tuo nome

Beautiful Boy
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

Pur essendo tratto da due memoir, quello del padre David e quello del figlio Nic, Beautiful Boy è essenzialmente la storia di un genitore (Steve Carell) che assiste al disgregamento della vita del primogenito (Timothée Chalamet), dipendente da ogni tipo di droga e in particolare dalle metanfetamine.

David Sheff è un giornalista freelance di grande successo, ha divorziato dalla prima moglie e da allora condivide con lei il tempo di Nic, bambino timido e introverso per il quale nutre un attaccamento viscerale. Tra la fine delle superiori e l’approdo al college, Nic inizia a provare ogni genere di sostanza stupefacente e, quando il padre se ne accorge, è già passato al crystal meth, droga particolarmente distruttiva per la velocità con cui provoca il consumo compulsivo e colpisce certe terminazioni nervose.

Considerato che il film, diretto da Felix Van Groeningen – il regista di Alabama Monroe -, segue con una certa arrendevolezza tutti i cliché del suo sottogenere, meglio spendere due parole per le parti meno ovvie, e in particolare per la trasformazione di David, abituato per deformazione professionale a inquadrare i problemi attraverso il loro studio sistematico e la scrittura. La contraddizione tra lui e Nic, due persone che comunque si amano profondamente, è proprio in questa opposta prospettiva esistenziale: l’umanesimo e il razionalismo dell’uno (come soluzione a tutto), contro le nenie decadenti e la tensione al nichilismo dell’altro (come via di fuga). Solo quando il primo cede un po’ del proprio controllo, il secondo riesce ad acquisirne una quota minima e ricominciare il processo di guarigione.

Oltre questo conflitto – diciamo – poetico, c’è la routine dell’autodistruzione e dei suoi effetti: rehab e ricadute, prese di posizione che durano sempre il lasso di un ripensamento – o un giro d’umore che non segue il verso sperato -, e la nuova famiglia di David, che al ragazzo è comunque affezionata, a subirne passivamente (ed economicamente) gli alti modesti e i terrificanti bassi.
Di suo, Van Groeningen ci mette il talento per l’affresco frammentario e un certo disordine dei piani temporali (anche se non nella misura del citato Alabama Monroe), come un Guillermo Arriaga col freno a mano tirato. Di loro, i due protagonisti mettono ottime interpretazioni e una buona chimica.

A margine: il film è anche un suggestivo controcampo per la serie di culto Breaking Bad, che girava proprio attorno al traffico di crystal meth. Difficile, dopo un viaggio del genere nella dipendenza e nei suoi effetti, ripensare con lo stesso ghigno compiacente al camper in cui Water White cucinava metanfetamina “purissima”.

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