Blade Runner 2049: la recensione di SaraCarda

BLADE RUNNER 2049
Il cult che rivive tra innovazioni e fedeltà.
Ok, d’accordo, il Blade Runner di Villeneuve non è quello di Ridley Scott, Ryan Gosling non è Harrison Ford, la pellicola del 2017 non è quella del 1982. Dopo aver esplicitato l’ovvio, concordando con tutti coloro che hanno messo una croce sopra il sequel di Scott andandolo a vedere con gli occhi di proseliti fedeli che si avvicinano all’eresia cinematografica, possiamo andare oltre e affermare che Blade Runner – 2049 non è Blade Runner, ma è comunque un bel film e che Ryan Gosling di certo sullo schermo non sfigura, che canti in un musical tra le stelle o che sfrecci con un’auto volante in una Los Angeles distopica.
Nel girare un sequel, specie di un film culto, bisogna riuscire a regalare un’esperienza nuova al pubblico dandogli però l’illusione di ritornare in un mondo conosciuto. Villeneuve in questo manca, ma questo non per forza è un demerito. Il suo Blade Runner è un film con un’identità propria, a partire dal suo protagonista, Ryan Gosling. Lontano da quell’aria dura e beffarda di Ford, il suo agente K, un replicante che caccia replicanti ribelli, è un eroe romantico, duro per necessità ma malinconico, che si trascina in un mondo anafettivo, capace di elargire solo solitudine. Un sentimento che le atmosfere del film palesano in ogni scena differenziandosi dal primo. Non più la pioggia onnipresente e il buio di Los Angeles, che rispecchiavano quel senso di inquietudine dato dalla presenza perturbante dei replicanti, o la loro angoscia nell’essere braccati; la pellicola di Villeneuve si dipinge di ocra e nero, con scenari desertici e post apocalittici che gridano all’abbandono, come una Las Vegas in rovina, che si erge dalla nebbia rossa simile a un reliquario delle glorie americane del passato, di una vita piena di calore e musica che K non ha mai provato ma di cui comunque sembra avere nostalgia. Scenari che restano stampati a fuoco e che saranno per questo sequel una firma stilistica come la mitica pioggia lo era stata per il primo.
Altra presenza nuova è Jared Leto, che colleziona un nuovo ruolo da inquietante psicopatico presentandoci il nuovo proprietario della fabbrica dei replicanti, un visionario cieco con un piano filantropico quanto paradossale per salvare il genere umano.
Bravi entrambi, ma poi c’è lui, Deckard, che torna più in là di quanto avremmo sperato, ma con intatto quel mix di carisma e ironica misantropia che contraddistingue molti dei personaggi di Ford e che si contrappone alla serietà di Gosling o alla follia cinica di Leto schiacciandole. La battuta cult del primo, “Io ho visto cose…” era del replicante Roy Batty, ma è tutta racchiusa nella prima occhiata che Deckard rivolge al giovane K e buca lo schermo, mostrando come quegli anni di differenza, anziché pesargli sulle spalle, gli stanno attorno per creargli l’aurea del divo di Hollywood. Gosling, sei bravo, ma l’occhiata di chi ha visto la Morte Nera e l’Arca Perduta non si batte.
È proprio il mistero che avvolge lui e Rachel, la replicante di cui si era innamorato, che fa da conduttore tra questo e il primo film, un mistero su cui K deve indagare e che, se portato alla luce, rischia di distruggere il fragile equilibrio che si è creato tra i replicanti, usati come schiavi, e gli umani che li hanno creati, i loro padroni.
Il mistero di per sé non ha uno spunto nuovo e la trama, a tratti prevedibile, ne risente articolandosi su esso, ma anche il primo film non è certo rimasto nell’immaginario per i colpi di scena e le sequenze avvincenti, basandosi, con buona pace dei suoi adoratori, su una trama lineare e un ritmo lento. Certo, erano gli anni ’80, la fantascienza si stava affacciando nelle sale e il pubblico non era così avvezzo come oggi a replicanti e auto volanti, ma l’originalità di quel film non stava nell’alienante spaccato distopico di un futuro non troppo lontano. Blade Runner non è una pellicola che vuole raccontarti una storia alla Dunkirk, né vuole colpirti con gli effetti speciali alla Star Wars. Blade Runner ha una domanda, una grande domanda che è il vero fil rouge tra il film di ieri e quello di oggi, e si inserisce nella Storia come pietra miliare perché la impone a chi lo guarda.
I replicanti di Ridley Scott avevano colpito l’immaginario collettivo turbandolo sull’inquietante possibilità di poter creare la vita in un laboratorio e l’aveva lasciato con l’interrogativo amletico che aveva attanagliato Deckard per tutto il film, un interrogativo che ha consacrato la pellicola a cult perché solo le storie capaci di farci riflettere accedono all’Olimpo di Hollywood. È quell’interrogativo che Villeneuve riprende e riporta in vita, non la pioggia, non le auto futuristiche che i nostalgici di Scott tanto rimpiangono. Forse per tentare di dargli finalmente una risposta a distanza di trent’anni, o magari semplicemente perché il mondo ha ancora bisogno di rifletterci su e non deve dimenticare di farlo, per il presente e per il futuro: che cos’è che ci fa capire di possedere un’anima e ci rende umani?

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