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Chef: la recensione di Marita Toniolo

Chef: la recensione di Marita Toniolo

Resettate tutto quello che sapete di Jon Favreau: sia gli indie degli inizi come Elf, sia il suo capolavoro pop Iron Man e il flop successivo Cowboys and Aliens. L’extra large Favreau fa con Chef fa quello che anche il suo personaggio fa nel film, ovvero “ascoltare la pancia” per seguire la passione, senza pensare al profitto e alla convenienza, dando vita a un film low budget da lui completamente cucinato: diretto, scritto, interpretato e prodotto.

La storia è presto detta: Carl Casper è lo chef one man show di un ristorante molto frequentato, che all’inizio della carriera aveva ottenuto recensioni entusiastiche per poi essere stroncato all’apice della maturità da un food blogger (Oliver Platt) con molti follower. Carl avrebbe saputo stupire il critico con un appetitoso menu, se avesse potuto seguire la sua autentica vena creativa, ma ha dovuto piegarsi alle ragioni del proprietario (un ostinato Dustin Hoffman) che gli hanno imposto di servire ai clienti la solita “sbobba”, ricevendo in cambio una critica distruttiva. Una recensione che lo ha denigrato pesantemente a livello professionale, moltiplicandosi in Rete tramite Twitter e lo ha portato a litigare pubblicamente con il recensore. Lite che verrà filmata e postata su Internet rendendolo improvvisamente famoso/famigerato e che soprattutto gli farà perdere il lavoro. Il licenziamento, anche per merito  dei suggerimenti di una mora e languida Scarlett Johansson nelle vesti di amica e della sexy ex moglie cubana Sofia Vergara si trasforma in un regalo per Carl, che lo farà uscire dalla prigione che si era autocostruito e gli farà attraversare l’America on the road a bordo di un camioncino dove darà vita ai più buoni hamburger cubani cucinati da un bianco. Merito anche del suo socio e amico per la pelle di origine cubane, interpretato da un vivace John Leguizamo e soprattutto del figlio Percy, maghetto di Internet che trasforma la cavalcata del food track in un fenomeno virale (con tanto di product placement di Vine eclatante).

Favreau sbraca completamente e mescola i generi come un cuoco che voglia far uscire i propri clienti pasciuti dal proprio ristorante. Chef è nelle intenzioni una commedia culinaria, tema ipertrendy del momento, ma più di ogni altra cosa una commedia sentimentale imperniata sulle difficoltà e la bellezza del rapporto padre-figlio. E, nello stesso tempo, un road movie che parla di amicizia, amore e seconde chance. E che ha l’ambizione di porre l’accento su tutto ciò che conta davvero nella vita. Che mette in primo piano il bisogno di libertà creativa e le passioni.

Il regista statunitense trasforma il suo film al sapore di tacos e chili in una riflessione verace sul bisogno di ogni artista e creativo di essere libero di sperimentare e sul potere (fasto e nefasto) dei social. Casper si accalora in modo così acceso col suo boss e col critico da non riuscire a non farci pensare che Favreau stia parlando in realtà del suo fare cinema e del rapporto che si instaura tra un regista e gli executive degli studiosa da una parte e i critici su Internet dall’altra. Quanto ai primi l’ottusità di Hoffman nell’imporre il solito menu la dice lunga, quanto ai secondi «Una stroncatura può rovinare una vita» induce a riflettere il papà di Iron Man con veemenza; «Voi critici giocate su Internet, noi registi finiamo in rovina» sembra voler gridare.

Mini budget e maxi-cuore, con un cast all-star di vecchi amici sottopagati, il film è un inno alla libertà dove si cucina tantissimo, si cantano le canzoni diffuse dall’autoradio (una colonna sonora accattivante che miscela Marvin Gaye e ritmi cubani) e i superpoteri sono l’affetto degli amici e dei propri cari. Una commedia molto convenzionale e ripiena di tutta la retorica statunitense classicissima, ma piena d’amore per il dettaglio (cinque minuti buoni di ristrutturazione del food track), tanto da finire per trascurare la trama e lo sviluppo dei personaggi (la Johansson sparisce nel secondo tempo; quasi sprecato il cameo di Downey Jr. nei panni del milionario secondo ex marito della Vergara che gli finanzia lo street food) e  senza un ostacolo vero da combattere.
Sorrisi e tenerezza spalmate per un’ora e mezzo di film come il burro sui toast, insomma. Non passerà alla storia come il miglior film sulla cucina, né come l’indie low budget che non ti aspetti (anzi, tutto il contrario), ma la sua nota lieve, l’autentica passione di Favreau per il cibo e la volontà di dire tutto ciò che gli passa per la mente, fanno perdonare un film dove sostanzialmente per un’ora buona di film non succede nulla di eclatante e i molti eccessi di zuccherosità.

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Mi piace: la sua nota lieve, l’autentica passione di Favreau per il cibo e la volontà di dire tutto ciò che gli passa per la mente.
Non mi piace: il fatto che per un’ora buona di film non succeda nulla di eclatante e certi eccessi di zuccherosità.
Consigliato a chi: è in cerca di leggerezza e ama mangiare.

VOTO: 3/5

 

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