Chernobyl Diaries – La mutazione: la recensione di Giorgio Viaro

Coppie di americani in vacanza in Europa: due fratelli, uno con una promessa di matrimonio in tasca, e le loro fidanzate. Vanno a Londra, vanno a Roma, vanno a Parigi, poi – per non farsi mancare niente – si fanno una scappatina in Ucraina. «Ragazzi, ho fatto una pensata», salta su il fratello maggiore, «perché non ci facciamo un giro a Chernobyl?». Sì, perché a quanto pare, se non ti avvicini troppo alla famigerata centrale e non ti fermi troppo a lungo, c’è da divertirsi: condomini abbandonati, orsi in libertà, pesci radioattivi e l’inquietante profilo delle ciminiere velenose all’orizzonte. Inconvenienti da mettere in preventivo: la guida sparisce, il furgoncino non riparte, la notte cala, nel buio c’è qualcosa.

Innanzitutto c’è da affrontare la questione del cattivo gusto: che effetto vi farebbe un horror intitolato Auschwitz Diaries?
Detto questo, il film – scritto da Oren Peli, il papà di Paranormal Activity – aggiorna ulteriormente il concetto di found footage, levandosi definitivamente dai piedi il problema del punto di vista: una camera accesa in mano ai personaggi c’è (la porta una delle ragazze) e la grammatica è spesso quella del mockumentary, ma l’azione è raccontata attraverso altri obiettivi, senza che venga più richiesta la sospensione dell’incredulità allo spettatore (“gli zombie gli hanno mangiato le braccia e ancora riprende?”). Dopo Chronicle non c’erano più margini per tirare la corda, e a questo punto il genere può dirsi quasi defunto.

Per il resto Chernobyl Diaries è un onesto horror giocato sul body count (con una terza coppia che si aggiunge all’ultimo minuto giusto per aumentare la carne da macello), che si giova di un’ambientazione in effetti suggestiva: il nemico è l’ambiente stesso, la minaccia è prima di tutto il veleno che appesta l’aria e che diventa tanto più letale quanto più si rimane sottoposti al suo effetto. Di questo veleno e di questa minaccia è impregnata ogni cosa: l’acqua, la nebbia, la vegetazione, gli animali randagi, tanto che l’unico rifugio sembrano le portiere di un auto.

L’esordiente Bradley Parker gioca moltissimo sul non visto e sulle presenze nascoste in campo lungo, lasciando vagare l’occhio della camera lungo i corridoi fatiscenti di casolari abbandonati. Il sangue è poco, l’immagine semi-lavorata, l’inquadratura ogni tanto segue i personaggi e ogni tanto se ne va per conto suo. Un bizzarro ibrido tra vecchio e nuovo horror che assomiglia tanto a un pasticcio, ma che pure va benissimo per concedersi qualche brivido in queste prime insopportabili serate d’afa.

Leggi la trama e guarda il trailer del film

Mi piace: la scelta di usare Chernobyl come un brand horror è discutibile, ma l’ambientazione è effettivamente suggestiva

Non mi piace: il linguaggio da found footage e quello da horror tradizionale sono mischiati con poco criterio

Consigliato a chi: ama rinfrescare le serate estive con qualche salubre spavento

Voto: 3/5

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