Civiltà perduta: la recensione di loland10

“Civiltà perduta” (The Lost City of Z, 2016) è il sesto lungometraggio del regista newyorkese James Gray.
Film di ambienti, di famiglie, di storie, di viaggi, di sentimenti, di imperi e di scontri.
L’uomo e la sua meta, l’uomo e l’ignoto, l’uomo e la sua interiorità: nella pellicola si mescolano, si aggrovigliano e si dipanano idee agguerrite di confini sconosciuti e di zone vergini nella Bolivia dei primi decenni del ‘900.
Un film dove il linguaggio e il suo incontro, i luoghi e i loro resti, le acque e il loro scorrere inesorabile limitano e fanno barcollare i pensieri e il coraggio degli inglesi. La voglia di conoscenza va oltre la conquista e il sapere di una città sconosciuta a tutti batte ogni giogo resistente di sopraffazione, vittoria e rude colonialismo. L’inglesismo burbero e pacato di una vittoria a tutti i costi, prima che tutti ne vedano gloria, arrivano al mondo di una civiltà mai incontrata, inesistente dove l’ordinario borghesismo dell’epoca va a rotoli completamente. Si incontrano linguaggi e mondi opposti, ricchezze e cannibalismi, culture e primitivi, umanità e fobie antiche. La vita e la morte sono lì senza muri e ognuno arriva come vuole e senza proposte.
Percy Fawcett (Charlie Hunnam) ne un militare che ha voglia di fare carriere e di passare di grado; la Royal Society gli dà la possibilità con lo studio del territorio amazzonico in Bolivia e per eseguire una cartografia di luoghi vergini. Il lavoro di due anni termina ma il fascino che gli lascia la zona e alcune scoperte archeologiche trovano in lui la grande aspirazione di cercare la ‘culla’ della città perduta Z.
Il colonnello Percy tornerà più volte in Amazzonia, con il suo fido caporale Henry Costin (Robert Pattinson) lasciando la sua famiglia e i suoi figli: l’adorata moglie Nina (Sienna Miller) è con lui nonostante la grande distanza e le poche righe che si inviano. Ci troviamo ad inizio secolo scorso e dopo la prima guerra mondiale. Il figlio primogenito Jack (Tom Holland), vivace e integerrimo nel rispetto, trova il coraggio e la forza di partire con suo padre per trovare l’El-dorado della civiltà moderna.
Il film dove sembra che si debba accorciare (a noi che osserviamo) si perfeziona in dialoghi lunghi e necessari; dove invece ci si aspetta avventura e altro riesce a stringere ed essere essenziale. Tutto in uno scambiarsi di umori, sensazioni, sguardi e ambienti dove ogni sguardo registico, personale e attoriale si incastrano in visionari-età, classicità e sogno oltre la morte. ‘Parleranno di noi dopo questo che abbiamo visto’: il colonnello e suo figlio si sentono uniti oltre l’Oceano con la loro casa famigliare mentre il destino appare inevitabile. Lo scontro selvaggio (ultimo) delle tribù è su chi ha il ‘diritto’ di appropriarsi della vita dei nuovi arrivati: si scappa inutilmente. Il verde, il buio, l’acqua e in ultimo il fuoco zittiscono le loro voci ma alzano il mistero di un ricordo continuo.
E il termine ‘padre’ con cui Jack chiama il colonnello suo genitore si trasforma in un afflato senza paura, in un ‘papà’ cordiale, amorevole e di grande affetto. ‘Papà ti voglio bene, … Anch’io ti voglio bene’. Parole semplici ed efficaci dopo un girovagare continuo e una ricerca assidua di vite passate e di storie mai studiate. Lo spirito della conquista interiore vince la sua battaglia su una società piena di contraddizioni. I valori padre-madre in una famiglia vengono messi a dura prova da tutto: Piercy e Nina rimangono uniti sempre nonostante accese discussioni e scontri sociali.
Un po’ di Visconti (il ballo iniziale riecheggia lo spirito del regista milanese), un po’ di Boorman (la foresta amazzonica e le cascate allungano il ricordo del regista inglese), un po’ di Herzog (l’impervio avanzare, i luoghi ancestrali e il mito interiore salutano la natura immonda del regista tedesco), un po’ di Spielberg (inizio al buio e la battaglia feroce nel campo della prima guerra come del capitano Nichols per il regista di Cincinnati), un po’ di Coppola (lo scorrere delle acque dentro la barca e la sua risalita preludono ad un sogno tragico come la guerra interiore del regista di Detroit).
Zeta è l’ultima postilla di un alfabeto da snocciolare, è l’ultimo itinerario di un luogo sconosciuto, è la vita dentro di noi che vorremmo leggere.
Cast efficace e ambientazioni suggestive. Tutti sono da menzionare da Charlie Hunnam (colonnello) a Robert Pattinson (caporale) che riesce ad evidenziare il suo personaggio con caparbietà e gioco di sottrazione. Si ricorda anche la presenza di Franco Nero (barone De Gondoriz). Da menzionare l’ottima fotografia di Darius Khondji: variegata, leggera e oscura.
Didascalie finali e sovrascritte per ricordare gli eventi e i personaggi descritti.
Regia di impatto e classicheggiante.
Voto: 8/10.

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