Detachment – Il distacco: la recensione di Silvia Urban

«Non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me e così presente nel mondo nello stesso momento». Inizia con questa frase di Albert Camus Detachment – Il distacco, il nuovo film del regista di American History X, Tony Kaye, che per contenuti e messaggio ricorda L’attimo fuggente, ma è sperimentale a livello di regia. Il film si serve di soluzioni visive non convenzionali e della superba prova di Adrien Brody per riflettere sul ruolo degli insegnanti – e più in generale della scuola – e sulle diverse forme di disagio sociale di cui sono vittime (ma anche artefici) le nuove generazioni. Con la consapevolezza di appartenere a un momento storico minato dalla crisi delle principali agenzie educative in cui diventa fondamentale per i giovani «avere una guida, una persona che ti aiuti a capire, ad accettare la complessità del mondo in cui viviamo».

La prospettiva è quella di uomo che una guida non l’ha mai avuta. Henry Barthes, il miglior supplente di letteratura tra gli insegnanti disoccupati, e per questo in costante pellegrinaggio da una scuola superiore all’altra, è un uomo solitario, barricato in se stesso. Un presente profondamente segnato da un trauma infantile – rivissuto attraverso una serie di flashback – che lo ha trasformato in «un guscio vuoto», come lui stesso si definisce, e lo porta a mantenere una distanza di sicurezza da chiunque. Anche dai suoi studenti, con i quali non c’è mai nemmeno il tempo di instaurare dei legami. Questo fino a quando non viene mandato in una scuola di periferia frequentata da ragazzi «praticamente irrecuperabili». È durante la permanenza in quell’istituto che Henry incontra Erica, giovane prostituta a cui offre aiuto e protezione e l’unica capace di penetrare la barriera difensiva dietro cui lui si nasconde.

Ne esce un quadro piuttosto desolante e a tratti un po’ forzato, ma nel complesso sincero. La fotografia di una realtà dove mancano i punti di riferimento. Dove i giovani, avendo perso il senso del limite e del rispetto per se stessi e per gli altri, si permettono di minacciare gli insegnanti, insultare i compagni e vendere il proprio corpo: «Noi ci siamo nati nella feccia e non abbiamo niente a parte la consapevolezza di quanto tutto sia incasinato». Dove «bisognerebbe avere dei requisiti e seguire un manuale per fare i genitori», perché questi o si ergono a difensori dei propri figli o, al contrario, infieriscono sulle loro debolezze; mai cercano di comprendere. Dove «l’unico modo per sopravvivere all’olocausto del marketing è poter preservare la nostra mente». Dove alcuni insegnanti credono di poter fare la differenza, salvo poi accorgersi di aver fallito. E dove l’unica certezza rimane la grande e fondamentale responsabilità degli educatori di guidare i giovani e fare in modo che non crollino.
È la macchina da presa a estorcere questi pensieri, piazzandosi davanti a Henry e ad altri insegnanti e catturando ogni loro confessione. Ma anche zoomando velocemente sui volti e i corpi dei protagonisti, a volte fin troppo, tanto da non riuscire a metterli a fuoco. E laddove l’obiettivo non arriva sono animazioni grafiche bidimensionali – disegni tracciati con il gesso sulla lavagna – a dare forma ai sentimenti e tradurre le parole in immagini.
Sebbene i toni tendano ad alzarsi, lo sguardo a generalizzare e farsi troppo pessimista e la tensione ad aumentare in modo funzionale all’evoluzione del film, quel che conta è che non siamo davanti a un guscio vuoto. Tutt’altro, un guscio pieno di verità che scuotono.

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Mi piace
La superba prova di Adrien Brody. La riflessione sull’importanza e le difficoltà di un mestiere come quello degli insegnanti. La fotografia dell’universo giovanile, desolante ma non così distante dalla realtà.

Non mi piace
Gli eccessi di pessimismo.

Consigliato a chi
Agli insegnanti, soprattutto coloro che hanno a che fare con gli adolescenti. E ai genitori che vivono delle difficoltà comunicative con i propri figli.

Voto
4/5

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