Dolor y Gloria, la recensione

Pedro Almodóvar si nasconde dietro l'alter ego Salvador Mallo (Antonio Banderas) e firma uno dei suoi massimi capolavori

Dolor y Gloria
PANORAMICA
Regia (4.5)
Sceneggiatura (4.5)
Interpretazioni (5)
Fotografia (4)
Montaggio (3.5)

Una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo (Antonio Banderas), un regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ’60 quando emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni ’80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del vuoto, l’incommensurabile, lancinante spazio bianco, un po’ torpore mentale e fisico un po’ caos del quotidiano, causato dall’impossibilità di continuare a girare film. 

Dolor y Gloria non è, banalmente, solo il testamento di Pedro Almodóvar, anche se la tentazione di definirlo in questi termini è morto forte. Perché è anche un film stracolmo di vita, di orizzonti futuri da provare a tracciare e ipotizzare, inevitabilmente anche di speranza. Il grande regista spagnolo, dopo anni in cui il suo cinema era parso ondeggiare senza grossi scossoni e in tono decisamente minore, mette in scena se stesso attraverso l’alter ego di un regista alle prese con la stanchezza, la paralisi creativa, lo struggimento per il tempo che è passato.

Antonio Banderas lo interpreta con commovente mimetismo: da attore feticcio prediletto della filmografia dell’autore ispanico si cala nei panni del cineasta tanto amato andando ben oltre la somiglianza fisica, i capelli brizzolati, gli immancabili occhiali da sole scuri per posare come Mastroianni in Otto e mezzo di Fellini. Ne sposa la malattia e la crisi, affrontando il passato (la Cineteca che restaura un suo successo di trent’anni prima, Sabor, e lo invita a una proiezione che ha esiti tragicomici) per fare i conti con un presente ammaccato in cui la vita si è ridotta a una medicina inutile, a un farmaco senza prescrizione, privo di effetti e controindicazioni. Mentre a sopravvivere, oltre ogni rimpianto, c’è il miracolo vitale del cinema, unico balsamo possibile ma anche consolazione imperterrita, bisogno infantile e viscerale, sommo e primario.

Dolor y Gloria non è solo uno dei massimi capolavori di Pedro Almodóvar ma anche uno degli autoritratti più sensazionali, onesti e poetici che un regista abbia mai cesellato intorno alla propria, personalissima idea dell’intersezione inevitabile e congenita tra arte e vita. Un corpo a corpo col dolore che abbraccia con ironia insicurezze e nevrosi, passioni sopite e rimpianti mai domi, debolezze e nuove dipendenze: Mallo sperimenta l’eroina per noia e per tentare la fuga dai suoi malesseri fisici ed esistenziali, ma la droga massima per lui continuano a essere i ricordi dell’infanzia e della madre, interpretata non a caso dall’attrice più cara ad Almodóvar, Penélope Cruz, perfetto, sfuggente emblema di una maternità sofferta e distante, di un’accoglienza che porta con sé tanto dolore e poca gloria.

Ed è infine in un’ebbrezza dolce e malinconica, che sa di brezza d’estate e di pipì, di gelsomino e dunque anche di cinema all’aperto, di profumi lontani e struggenti ritorni, che Dolor y Gloria che si colora e si accende, molto spesso di un rosso accesso che investe gli arredi e gli interni, nei quali i colori vividissimi e accecanti da sempre cari ad Almodóvar raggiungono una perfezione plastica: uno splendore figurativo solo apparentemente asettico, che trova linfa e conforto nelle figurine di Tyrone Power e Donna Reed, in Mamma Roma di Pasolini e in Marilyn Monroe

In tutto il cinema del mondo che è rimarrà sempre lo stesso, mentre a cambiare, inevitabilmente e inesorabilmente, saranno sempre e solo gli occhi attraverso cui guardiamo il mondo.

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