Dream House: la recensione di Joan Holden

Uno scrittore impazzito che, nel mezzo di una bufera di neve, riversa le sue frustrazioni sulla famiglia fino a provare il desiderio di sterminarla.
No, non stiamo parlando di quel capolavoro di Shining, ma del decisamente più modesto Dream House, diretto dall’irlandese Jim Sheridan.
Catalogare il film come “non riuscito” sarebbe un eufemismo, dal momento che si tratta di una pellicola rinnegata dallo stesso regista nonché dagli attori: una post-produzione travagliata che ha impedito a Sheridan di imprimere il suo marchio sul progetto, con inevitabili conseguenze nefaste sulla riuscita del film.
Non potendo sapere quanto e in che modo le decisioni della produzione abbiano inciso sul risultato finale, dobbiamo limitarci a prendere Dream House per quello che è : uno psycho-thriller a tinte horror deludente, prevedibile e a tratti sconclusionato.
L’idea di base dalla quale il film si sviluppa è trita e ritrita: la casa che da luogo accogliente diventa teatro dell’orrore, la famigliola felice che nasconde verità angoscianti, le bambine sensitive…non occorreva certo l’aiuto del trailer-spoiler (un plauso comunque a chi l’ha realizzato, della serie “e ora il film che me lo guardo a fare?!”) per capire dove la storia voleva andare a parare.
Non siamo più il pubblico ingenuo de Il Sesto Senso o The Others, e del resto l’inganno in questo caso è mal celato.
Il film, dopo qualche sussulto horror, si avventura sul percorso decisamente più interessante del dramma psicologico, quando Will comprende di star vivendo una realtà distorta partorita dalla sua mente malata: indubbiamente l’aspetto più riuscito del film, grazie alla sensibilità di Sheridan nel trattare le emozioni dei personaggi e all’ottima interpretazione di Daniel Craig.
La parte finale del film vira bruscamente verso il thriller. Se l’horror delude per i suoi prevedibili risvolti, il thriller riesce a far peggio, fornendo una risoluzioe del mistero ancora una volta scontata e poco credibile.
Non bastano due grandi attori come Craig e Rachel Weisz a risollevare una trama telefonata e piena di buchi, nonostante l’intimità familiare che i due riescono a ricreare (non a caso galeotto fu il set). La famiglia dipinta come rifugio dell’uomo perduto, tanto calda e accogliente nella sua irrealtà, quanto fredda e arida è quella verissima della vicina, una Naomi Watts sbiadita e mal impiegata.
Alla fine il libro verrà scritto, ma la casa dei sogni, avvolta tra le fiamme, crollerà. E il film con essa.

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