Due Giorni, una notte: la recensione di Giampaolo Gombi

Due giorni e una notte, è il tempo che rimane a Sandra per convincere i suoi colleghi operai a rinunciare a un bonus di 1000 euro in cambio del mantenimento del suo posto di lavoro. Tempi di crisi e l’azienda deve tagliare sui dipendenti: la persona più a rischio è lei, Sandra, reduce da una malattia e ritenuta la più fragile, la meno produttiva. Ma, anziché adottare un provvedimento pur sgradevole ma chiaro, la direzione della fabbrica, con un cinismo di cui nessuno sembra stupirsi e tanto meno contrastare, mette uno contro l’altro gli operai, facendo dipendere la decisione dall’esito di un voto espresso da loro stessi.
Da qui il pellegrinaggio della ragazza da una casa all’altra dei suoi compagni di lavoro, a rivolgere ad ognuno la medesima supplica. La regia e l’interprete sanno comunicare come meglio non si potrebbe l’imbarazzo e il disagio di Sandra costretta a formulare ripetutamente la stessa richiesta, nonché il piacere e la delusione a fronte di risposte positive o meno. Il realismo dei Dardenne non prevede la categoria dei buoni e quella dei cattivi: anche chi deve rispondere di no, salvo pochi casi, lo fa in modo dolente e adducendo buone ragioni. E sono soprattutto i no in qualche modo giustificati a mettere maggiormente in difficoltà la giovane, a farle intravedere la complessità e l’ineluttabilità delle cose. Stato di cose che, già toccata dal pessimismo e dalla disistima di se stessa, sembra non riuscire a reggere. Non serve l’aiuto di un marito amorevole e comprensivo, l’essere madre, l’affetto di due amiche: a un tratto vediamo Sandra, in una scena angosciosa perché di assoluta normalità, ingoiare una manciata di pillole. La salverà l’insperato sostegno di una collega.
Così si svela il vero carattere di questo film: quella che poteva sembrare solo una vicenda di ordinaria precarietà lavorativa è in realtà la storia di una lotta combattuta (e alla fine forse vinta) contro la depressione.
E la vittoria assume la forma del rifiuto a sacrificare un compagno, uno di quelli che le hanno espresso solidarietà, in cambio della reintegrazione in fabbrica. Questo improvviso sussulto di orgoglio significa per la ragazza aver riacquistato la forza di opporsi alle storture, ai ricatti, e aver ritrovato la capacità di ricominciare.
Marion Cotillard è un’interprete stupenda, in grado di dar vita a un personaggio sfaccettato e complesso, e si conferma una delle migliori attrici della sua generazione. E che dire del tocco dei Dardenne? Il loro è il realismo in chiave moderna, semplice, disadorno, ma efficace ed emozionante. Se il loro non è “il cinema” del ventunesimo secolo (chi può dirlo?) è comunque cinema, grande cinema.

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