Everest: la recensione di Tim_DarkShadows

Un genere che da sempre ha raccolto i consensi e l’interesse di una buona fascia di pubblico, cinefilo e non, è il così detto “survival movie”, pellicola che narra l’impresa di uno o più protagonisti nel sopravvivere ad una condizione che non permette loro di andare avanti, e film di successo su questa tematica ne sono usciti, qualcuno è riuscito a ricevere anche qualche nomination al premio Oscar nelle categorie principali (primo fra tutti “127 ore” di Danny Boyle). Arriva nelle nostre sale l’ultimo film di questo filone, presentato all’ultimo Festival di Venezia come film di apertura, “Everst”, che vanta un cast stellare e un budget di 65 milioni di dollari, e tutto questo fa del film un progetto ambizioso ma, per fortuna, non pretenzioso.

1996: Rob Hall, uomo sposato e in attesa di un figlio, con la sua società apre una spedizione per scalare la vetta più alta del mondo, il monte Everest assieme al suo gruppo di membri che verranno addestrati duramente prima di poter scalare il maestoso monte. Durante l’addestramento Rob scopre che anche un’altra spedizione gestita dall’eccentrico e non molto affidabile Scott Fischer, sta cercando di scalare l’Everest. Finito l’addestramento le due spedizioni partono il 10 maggio alla scalata della montagna. Dopo che alcuni membri dei due gruppi sono arrivati in cima, entrambe le spedizioni si trovano a dover fronteggiare una violentissima bufera che rischia di mettere a repentaglio le vite delle persone sul monte dando inizio ad una vera lotta contro la natura per poter tornare a casa.

Il film a differenza di molti altri del suo genere, riesce a distinguersi per uno stile registico che punta molto sulla potenza delle immagini e sulle sequenze dinamiche della vicenda, rompendo lo schema classico del genere a cui appartiene. Non sorprende che il regista, l’islandese Baltasar Kormákur, non sia nuovo a pellicole con una certa dose d’azione, e la sua padronanza del genere qui è evidente, infatti sono molte le scene dal forte impatto visivo e tecnico che colpiscono, merito va anche alle scenografie e all’uso del sonoro. Ma se il film opta per toni da mega produzione, la mancanza di alcuni punti fissi del genere si nota e questo rappresenta il più grande limite del film, anche se va riconosciuto lo stile audace di Kormákur nel fare a meno di certi aspetti, riuscendo a far scorrere lo stesso il film in maniera piacevole. Il regista islandese può contare anche su un cast che tira fuori il meglio di se, a cominciare da un intensissimo Josh Brolin, che non ha paura di mettersi in gioco ancora una volta con ruoli estremi, affiancato da un convincente, anche se poco sfruttato, Jake Gyllenhaal, e da un reparto femminile che nonostante le poche scene si fa ricordare, a cominciare da una Keira Knightley che lascia sicuramente il segno, così come la sempre elegante e comunicativa Robin Wright, e Elizabeth Debicki, attrice in ascesa sempre convincente, gradevole anche Emily Watson. L’unico interprete davvero sottotono è il protagonista Jason Clarke, il quale non riesce a dare profondità al personaggio. Se lo stile da Blockbuster del film toglie il lato più emotivo del film, il montaggio tiene attiva l’attenzione dello spettatore facendo del film un’esperienza cinematografica atipica, che nonostante la trama ambiziosa non si prende mai troppo sul serio, le cui immagini spettacolari riescono a compensare il taglio umano del film che manca.

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