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Fortunata

Fortunata

È interessante che Fortunata sia stato scelto da Thierry Fremaux per la selezione ufficiale del Festival di Cannes, e in particolare per la sezione Un Certain Regard, e invece Cuori puri (che da noi prenderà ovunque, e giustamente, voti migliori) sia finito alle Quinzaine, è una decisione che dice del Festival più di quanto dica del film in sé.

Il melodramma firmato dalla coppia Castellitto-Mazzantini è l’equivalente di un paio di jeans firmati, sembrano vecchi e scassati ma sull’etichetta trovi il nome dello stilista. Solo che il senso del cinema passa per il senso del reale, e dove il critico italiano vede la strategia commerciale, quello francese riconosce una tradizione – una Roma un po’ neorealista e un po’ sorrentiniana, una Jasmine Trinca un po’ Magnani e un po’ Bellucci, e una specie di generosità incosciente (l’epilogo con “Vivere” di Vasco Rossi fa cariare i denti) nel rappresentare la vita di borgata, nel barattare il vero con il verosimile da prima serata Mediaset.

Fortunata è una parrucchiera a domicilio, ottimista ma piena di debiti, che vuole aprire il suo salone assieme a un amico tatuatore (Alessandro Borghi), tossicodipendente e con la madre malata di Alzheimer. Ha una bambina problematica, sempre arrabbiata, in età da scuola media, e un ex marito poliziotto, manesco e prepotente, che vuole portarle via la figlia. Galeotto sarà l’incontro con uno psicologo dell’infanzia (Stefano Accorsi), pure lui premuroso ma scostante.

Dalla trama si intuisce già come il meccanismo tragico sia tutto esposto, se gratti la superficie trovi il romanzo da Autogrill. Ma se la Mazzantini solletica con mestiere curiosità e paure dello spettatore, e se Castellitto cerca costantemente la mossa poetica – la panoramica ad effetto, la canzone orecchiabile (“Have You Ever Seen the Rain?” dei Creedence Clearwater Revival, “Friday I’m in love” dei The Cure), il primo piano “intenso” – la semplificazione del dispositivo drammatico permette grandi prove d’attore e la Trinca (ma anche la bambina) hanno una forza che spacca il film in due.

Per chiudere: l’effetto è questione di prospettiva, lo dicevamo sopra, e un film così ha il diritto di trovare il suo pubblico e i suoi Festival, perché riesce a creare un immaginario – cioè testimonia uno sguardo, un’idea di racconto e messa in scena.

Ma anche il dovere di accettare le critiche, e in particolare le accuse di essere superficiale e un po’ manipolatorio.

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