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Glass

M. Night Shyamalan chiude il cerchio della sua personale trilogia e torna a sedurre e sconvolgere

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M. Night Shyamalan chiude il cerchio della sua personale trilogia e torna a sedurre e sconvolgere

Glass: la recensione
PANORAMICA
Regia (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (2.5)
Montaggio (3.5)
Effetti speciali (3)

M. Night Shyamalan ci aveva lasciato nel 2016 con uno finali più sorprendenti degli ultimi anni, quello di Split. Da quell’epilogo apprendevamo che il film che avevamo appena visto altro non era che il sequel di Unbreakable – Il predestinato, realizzato nel 2000 proprio dal regista americano di origini indiane, specialista indiscusso di finali a sorpresa e tensione raggelante (Il sesto senso, ancora oggi, continua a turbare il sonno di molti).

Nella TV di un ristorante veniva riferito che lo psicopatico Kevin Crumb (James McAvoy, abitato da 24 personalità multiple) era appena sfuggito alle autorità, mentre tre ragazze discutevano e rievocavano la follia di Mr. Glass, pazzo in sedia a rotelle, al secolo Elijah Price (Samuel L. Jackson). L’apparizione ulteriore di Bruce Willis nei panni di David Dunn, sedici anni dopo Unbreakable, in cui il suo personaggio sopravviveva a un disastro ferroviario, capiva di essere invincibile e incrociava proprio Price, ha gettato le basi, a soli due anni di distanza, per Glass, ambiziosa chiusura della trilogia.

L’epilogo di Split prese alla sprovvista un po’ tutti, anche se Shyamalan a suo dire aveva pensato a questo trittico fin dall’inizio. Glass, dal canto suo, convoglia tutti e tre i personaggi della saga nello stesso arco narrativo, avverando il sogno spericolato del cineasta: nel prologo vediamo Dunn mettersi sulle tracce della Bestia, l’anima più feroce di Crumb, che ha appena rapito quattro cheerleader, dopodiché veniamo catapultati all’interno di un manicomio in cui Kevin, David ed Elijah sono guardati a vista e studiata dalla psichiatra Ellie Staple (Sarah Paulson).

Da questo momento comincia il film vero e proprio, che non è affatto la delusione che molti recensori americani hanno già provveduto a delineare. Dopotutto anche Unbreakable, folle oggetto disposto a porsi domande coraggiose e senza ritorno ben prima dell’esplosione dei supereroi al cinema, all’epoca non era stato capito, alimentando equivoci e incomprensioni in chi voleva ostinarsi a prenderlo come un thriller qualunque. Col tempo non a caso è stato ampiamente rivalutato, a tal punto che oggi quasi nessuno lo mette in discussione.

Glass, in fondo, ha la stessa forza (Split era altrettanto efficace ma anche più ludico), si adatta alla meccanica dei blockbuster di oggi ma riparte dalle medesime, radicali domande – cosa accadrebbe se i supereroi esistessero davvero? essere convinti di essere supereroi è a sua volta un superpotere? – e le riformula costruendovi intorno un’architettura filosofica e pop intricata eppure limpida. Divisa tra disperazione e commozione, ironia e catastrofismo, con addosso quel gusto per il paradosso crudele e ironico tipico del miglior cinema di Shyamalan, che purtroppo negli anni si è spesso perso.

Un puzzle di situazioni aguzzo e spigoloso, perversamente e morbosamente affascinante, proprio perché vederlo è proprio come fare un viaggio sulle montagne russe della psiche rimanendo fermi sulla poltrona, inchiodati a non pochi brividi lungo la schiena che hanno a che fare con la natura subdola e manipolatoria della nozione di alter ego. Specialmente quando piegata a finalità narrative o, come in questo caso, osservata in vitro, torchiata dalla lente deformante e al contempo rivelatrice della psicoanalisi (non a caso, siamo al cospetto di un film non solo di riflessi ma anche di soggettive traballanti, di proiezioni ma anche di frantumazioni).

Il primo grosso blocco della narrazione fa triangolare i tre protagonisti all’interno di una struttura di stampo psichiatrico e concentrazionario e nulla di sostanziale o originale viene aggiunto sulla natura di ciascuno di essi, senza ombra di dubbio. Ma il loro accostamento genera, dal punto di vista visivo e concettuale, una sensazione di malsano disagio, di precarietà intrinseca. Come se il film, analogamente alle ossa fragili come cristalli di Glass, fosse sempre sul punto di spezzarsi, oltre a specchiarsi nelle ossessioni del regista. Un rischio che Shyamalan si prende coraggiosamente sulle spalle ma che ripaga ampiamente, approdando a una seconda metà di enorme impatto per resa dei conti, senso dell’epica, presa di coscienza della contemporaneità.

QUI TROVATE UNA NOSTRA RIFLESSIONE SUL FILM.

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