Dal lontano Unbreakable sono passati diciannove anni. Con un colpo di scena inaspettato sul finale di Split, Shyamalan ha stuzzicato i fan di davvero lunga data, preparandoli ad una resa dei conti da leccarsi i baffi. In un angolo David Dunn, il protagonista del primo capitolo, impersonato da Bruce Willis, nell’altro James McAvoy che in Split ha semplicemente dominato la scena. Spettatore curioso anche Elija Price (Samuel Jackson), l’uomo di vetro che aveva scoperto le potenzialità di Dunn al costo di migliaia di vite umane, e ora rinchiuso in un centro psichiatrico.
Una premessa per molti palati e la certezza di una direzione artistica pronta a confezionare una chiusura del cerchio davvero esplosiva. Eppure un fallimento quasi totale.
Lo script del regista indiano sbanda fin dalle sequenze di apertura, dimostrando idee anche piuttosto chiare ma con uno sprofondo tecnico davvero desolante. Un peccato che macchia la fine di una trilogia anomala, che se quantomeno non intacca l’unicità dei primi due titoli, dall’altro lato ricama una delusione inaspettata.
Semplicemente Glass è un film che non funziona. Confuso, arruffato, per nulla carismatico, soprattutto slegato. La mancanza di fluidità si avverte in modo sistematico, a cominciare da un’alchimia completamente assente tra i personaggi chiave, il Dunn di Bruce Willis e il multipolare Kevin Wendall Crumb di McAvoy (ruolo in cui conferma ancora una volta un talento immenso). La pellicola risente del tempo, allargando il divario che intercorre dal lontano Unbreakable che aveva portato alle stelle il nome di Shyamalan. Un registro distante, reso quasi diametralmente opposto alle atmosfere ansiogene di Split, sequel, forse meglio crossover, che lo stesso regista aveva lanciato a sorpresa suscitando molta aspettativa.
La confusione invece regna sovrana. O meglio, la chiave di lettura lascia perplessi. Apprezzabile, e non poco, la scelta di discostarsi dai classici binari: Glass non è solo il confronto tra bene e male, anzi. In gioco mette molto di più e proprio per questo il rischio di sbandare è tanto più alto. Shyamalan gioca con il fumetto, centro nevralgico, girando attorno alla domanda da un milione di dollari: esistono i superuomini?
Peccato che per rispondere a questa domanda il film assecondi troppo la parte più ragionata della sceneggiatura, pedantemente cadenzata dalla figura, mal riuscita, della dottoressa impersonata da Sarah Paulson (American Horror Story), accantonando per larghi tratti le componenti action e thriller. Un peccato, perchè quando questo accade arrivano le scene migliori. Invece la troppa carne al fuoco divampa in un incendio senza controllo, che se da una parte soffoca le performance dei protagonisti (Bruce Willis se non in terzo, almeno secondo piano), dall’altra l’approfondire degli schemi “fumettiani” spazia senza affondare mai in una decisa convinzione.
Resta cosi la sensazione che il film possa decollare da un momento all’altro, illusi da quei climax buttati con il contagocce qua e là. Un pò come l’attesa per la prima battuta di Samuel Jackson: ci si aspetta il genio del male, ne esce un villain sconclusionato e non proprio imprevedibile. Un tutto che non fa altro che alimentare il dubbio di un progetto “forzato”, impacchettato con una serie di elementi potenziali che giocano però a diversi livelli. Un passaggio a vuoto che ci può stare ma che se valutato come conclusione di una trilogia lascia ben più dell’amaro in bocca.
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