(In collaborazione con Orietta Anibaldi e Fabio)
“The Adjustment Bureau”, l’esordio registico di George Nolfi, è una continua “transizione attraverso porte”, idea non presente nella ventina di pagine del racconto di Dick (“Adjustment Team”, “Squadra riparazioni”, del 1954), e che invece pone a proprio rimando basilare il celebre apologo “Davanti alla [porta della] legge” contenuto ne “Il processo” di Kafka (scritto nel 1914 e pubblicato postumo). Per fortuna Nolfi derubrica l’angelologia sull’esempio di “The Mothman Prophecies” (2002): enti cosmici non così diversi da noi. E il nucleo del racconto è di rilievo assoluto: l’auspicio che il predeterministico destino della realtà fisica non sia antiprovvidenziale, bensì stia selezionando l’evento decisivo con cui il libero arbitrio diventi un falso problema poiché ci troveremmo auto/etero-vincolati a godere della massima felicità. È un argomento che trova ben poca trattazione e divulgazione nonostante andrebbe considerato d’importanza suprema. L’intreccio fra (pseudo)”sci-fi”, “action movie” e “love story” è accuratissimo: nessun effetto speciale in stile Scott senior, Verhoeven, Spielberg, Woo, Tamahori e altri hitech-maniaci (qui basta e avanza l’avere un cappello o il proteggersi vicino all’acqua, simboli del limite alla conoscenza predittiva e del “panta rei” contrapposto al Piano nell’accezione di fatalistica immutabilità), la trama è movimentata quel tanto da non ridurre l’esistenza a psicologismo, l’amore è vissuto di coppia come scommessa sul valore aggiunto dell’interazione romantica ed erotica: rapporto sentimental/sessuale con risonanza superadditiva. Nello specifico, il film è tripartito secondo il modello utopico della sizigia:
1) amore complementare in cui le identità sessuali sono distinte e separate, diverse e “altre” fra di loro; dentro due toilette, prima lei insegna a lui il legame erotico con un bacio, poi lui insegna a lei l’aggressività come (presunta?) legittima difesa dei loro valori; nell’intermezzo, un brulicare di gonne più-che-mini, allusioni alla “lap dance”, rivalità e guerra fra i sessi con tanto di colpi bassi come nella gara della corsa a piedi;
2) amore gemellare dove le affinità elettive sono tali da consentire l’interscambiabilità dei ruoli; dinanzi alla porta del Bureau, e sovrastati dalla statua della Libertà, i due protagonisti si comportano all’unisono condividendo sia la porta vulvo-vaginal-uterina sia la statua fallica: insieme decidono di penetrare quell’Ingresso (e questa è la differenza determinante rispetto all’approccio kafkiano, fosse pure per motivi solo biografici);
3) amore superadditivo che oltrepassa, scardina, trascende i limiti dell’approccio precedente; la sessualità fin qui vissuta com’amplesso dell’ascesa dello scalone sino al cielo dell’orgasmo, a tutt’oggi non produce alcuna novità effettiva; i due si sentono persi, si baciano e si dichiarano il loro reciproco amore da disperati condannati a morte, però ciò che manca a livello profilmico vien’aggiunto a livello filmico da Nolfi con una carrellata avvolgente, circolare, fusionale, al cui termine nulla sarà più come prima. La coppia si troverà trasmutata in un’unità ulteriore rispetto alla somma delle singole parti. Non si dispone d’esperimenti reali o mentali che possano avvalorare simile tesi, che dunque rimane ancora da verificare.
Fastidiosa l’assenza d’ogni allusione al problema parallelo, l’eventualità che un preciso e determinante fenomeno locale possa avere conseguenze globali, il mic-mac dall’antropologico al cosmologico, il blochiano “experimentum hominis” come luogo critico dell'”experimentum mundi”. Inoltre il cast difetta a causa d’un Matt Damon inquartatosi al punto ch’il film ironizza sul suo collo e per una Emily Blunt col “physique du rôle” adatto solo a personaggi negativi tipo in “Il diavolo veste Prada”. Altrettanto difettoso è il tono narrativo scelto, troppo spesso da commedia leggera quasi per smorzare la drammaticità del tema affrontato. Comunque un’opera prima (altrove) quantomai sottovalutata.