Il cuore grande delle ragazze: la recensione di Marita Toniolo

Anni ’30 del secolo scorso, la campagna emiliana, una famiglia contadina: basterebbero questi tre elementi per immaginarsi il nome di Pupi Avati impresso a lettere d’oro sul film. Dopo due pellicole “diverse” (e di scarso successo) come Il figlio più piccolo e Una sconfinata giovinezza, il regista bolognese ritorna alla sua terra e alle sue abitudini. Lo fa raccontando la vicenda, piccola e genuina, della famiglia contadina dei Vigetti, marito, moglie e tre figli. C’è il piccolo Edo, la grassa Sultana in perenne attesa delle mestruazioni e soprattutto Carlino (Cesare Cremonini), semplice, analfabeta, con la passione per le moto Guzzi e per le donne. È lui il centro del film: le ragazze del paese vengono tutte sedotte da questo tombeur des femmes che le intorta con il suo leggendario “alito di biancospino” e con un irriducibile candore al confine con la stupidità. Fino a quando non incontra (e si innamora di) Francesca (Micaela Ramazzotti), giovane, bellissima e figlia dei proprietari della terra in cui suo padre (Andrea Roncato) lavora.

Non è difficile immaginare dove stia il conflitto (di classe, di cultura, di ambizioni) che trascina Il cuore grande delle ragazze. Che contiene tutti i temi portanti della poetica del cinema di Avati, soprattutto l’evocazione amarcord di un “piccolo mondo antico” e la figura centrale della donna-madonna bellissima e tollerante. Intorno ai protagonisti ruota un cast corale e festoso di figurine eccentriche (spesso macchiettistiche) e contraddistinte da evidentissima emilianità, eccettuate le romane Francesca e la madre. Il regista si lascia dietro le spalle i toni drammatici de Il papà di Giovanna e si abbandona a un romanzo amarcord in cui più di una volta si scivola nella farsa, pur apprezzandone la ruspante genuinità di fondo. Certo questa aderenza alle solite tematiche è contestabile, e si potrebbe rimproverare ad Avati di non andare (più) da nessuna parte. Ma questo è il suo mondo e non smette di ripetercelo, quello che nasce dai ricordi della sua infanzia e viene riletto con gli occhi dell’adulto che non ha dimenticato quei profumi e quelle sensazioni. Un mondo fatto di personaggi più che di persone – nella tradizione della commedia italiana –, il racconto di una campagna atavica che forse non esiste più, se non in ritratti d’autore come questo.

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Mi piace
La rappresentazione ruspante e genuina che Avati fa della “sua” campagna emiliana.

Non mi piace
La pervicacia con cui il regista insiste a parlare sempre degli stessi temi.

Consigliato a chi
Ai fan di Avati e della commedia grottesca all’italiana

Voto: 3/5

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