Il Gatto con gli Stivali: la recensione di Silvia Urban

Dietro un grande successo ci deve essere una grande storia. Lo dicono tutti i manuali di sceneggiatura e scrittura creativa. Ma come accade spesso, c’è sempre un’eccezione che conferma la regola. Perché nel nostro caso il successo (di cui gli oltre 200 milioni di dollari incassati finora sono una testimonianza) esula dalla storia ed è tutto nelle zampe del suo protagonista.
Parliamo de Il Gatto con gli Stivali, lo spin-off nato dalla saga di Shrek per permettere al felino spadaccino di vivere un’avventura da vero protagonista e rivelare le origini del suo fascino. A livello temporale, il film di Chris Miller si colloca, infatti, prima dell’incontro con l’orco, quando cioè questo erede di Zorro (con il quale condivide il gene ispanico e la passione per la spada) viveva una vita da avventuriero solitario, in cerca di un modo per riscattare il proprio onore, involontariamente macchiato in gioventù durante una scorribanda col fratellastro Humpty Alexander Dumpty. L’occasione per rivangare il passato e saldare tutti i conti ancora in sospeso arriva insieme a un’offerta che il Gatto con gli Stivali non può rifiutare: il ratto della Gallina dalle uova d’oro, colpo più volte tentato e mai messo a segno. Questo l’innesco che scatena una storia fatta di amicizie in frantumi (ma ancora salvabili), tradimenti, passioni, danze dal ritmo latino, fughe (o inseguimenti, a seconda della prospettiva) ad alto tasso adrenalinico, colpi di scena e quel tanto di prevedibilità che conduce dritto all’happy end.

Se dal punto di vista formale – e ci riferiamo all’aspetto grafico e scenografico del film – il Gatto con gli Stivali risulta ineccepibile, è il contenuto ad avere le lacune più evidenti. A una cura quasi maniacale del design degli ambienti, delle atmosfere western, dei dettagli – dal pelo degli animali ai loro movimenti: impressionanti sono le sequenze di flamenco che vedono protagonisti Gatto e Kitty –, magnificati da un uso efficace del 3D, che dona profondità e qualità all’immagine, non corrisponde un altrettanto accurato studio dell’intreccio e dei personaggi secondari. Miller non riesce a ricreare le “spalle” che avevano fatto la fortuna di Shrek (Humpty, Kitty e i villain Jack e Jill non conquistano: la sensazione per tutti è di un déjà vu) e la colonna portante del film resta il suo protagonista, che si ripresenta al pubblico con lo stesso appeal che in questi anni ne ha decretato il successo e fatto attribuire l’epiteto di “più amato della saga dell’orco verde”. Un successo che è merito di un Antonio Banderas capace di trasferire al suo personaggio non solo le corde vocali e che si nasconde sotto il pelo di un personaggio buono ma non privo di qualche sfumatura oscura e di un lato politically uncorrect. Caratteristiche che sono presenti nella prima parte del film, quella più forte, dove ritroviamo l’anima dissacrante, l’eccesso, le citazioni (di Fight Club) e l’ironia cui Shrek ci aveva abituato. Ma che si perdono nel secondo tempo, quando la storia prende una deriva buonista con il Gatto impegnato a farsi portavoce in maniera molto (troppo) esplicita della morale del film: tutto nella vita va perdonato in nome del Bene comune.
E tutto sommato il messaggio passa. Perché a fronte di un personaggio tanto carismatico (c’è ancora margine per nuove avventure, ci scommettiamo) si perdona anche una trama poco frizzante e a tratti noiosa.

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Mi piace
Un 3D d’impatto, efficace, coinvolgente e luminoso, capace di dare un valore aggiunto alla pellicola, e il carisma del protagonista, vera forza del film

Non mi piace
La trama debole e la scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari, messi completamente in ombra dal Gatto con gli Stivali

Consigliato a chi
Ha sempre amato il Gatto con gli Stivali (anche più di Shrek) e non è ancora riuscito a trovare un film in 3D che lo soddisfasse

Voto
3/5

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