“Il nome del figlio” (2014) è l’undicesimo lungometraggio della regista romana Francesca Archibugi.
Un film che inveisce molto, che sculetta moltissimo, che canta bene, che sprigiona fastidio benissimo e che respira quel tono da commedia amara che oramai il nostro cinema (italiano) sa fare poco (o quasi nulla). Un film da borgomastro(a) in una Roma oramai disillusa del tutto e dove i quartieri migliori e che piacciono alla protagonista (un fuori campo iniziale dileguante e armonioso da un passato sfinito): Tiburtina, Alessandrina, Prenestina, Ardeatina, quelli che finiscono in ‘ina’ quasi diminutivo di tutto e del tutto, della città, della società, dei luoghi e dei raduni. Tutto in una famiglia o meglio in un incontro tra pochi per ricordarsi, vedersi, sfogarsi, mostrarsi e, perché no, sputarsi addosso. E’ questo il cinema dentro (un alveare sulla Roma dispersa) la cadaverica casa del ‘post’ famiglia Pontecorvo (tra stanze piene, scaffali di libri, cellulari squillanti, cinquettii continui, parolacce d’uso moderno e terrazza immancabile) che si trova a fare i conti con lo ‘sconquasso’ della vita dove, è ben dirlo, la stessa famiglia (idioma di idiozia, società senza etica) è principe spudorato di un teatrino sfinito della tristezza odierna. I flash-back (troppo insistiti e quasi un alibi di facile apple per gli stessi protagonisti) sparano il bello come contorti mondi di paralleli inesistenti: è la gloria (allusiva e illusoria) mai comparsa e quindi non da decantare o d de-osannare con una musica traccheggiante di un Lucio Dalla che s’avvera come per dire ‘telefonami tra vent’anni’…perché sarei ‘io lo stronzo..’ mentre non par vero che un tuffo dagli scogli fa carpire e sognare un ‘confinato mondo’ di suggestione, leccornie e di gioielleria ancora luccicante, ma…è il trenino che si vede tra Paolo, il cognato e l’amico a chiudere la disco-mania di un mondo di chiarezze finite, bugie incamerate e lingue insalivate. Sì tra vent’anni canteremo per ricordarci di un ieri bello (che di ghigno non era) e di una famiglia padrona del tempo (che è sfuggito tra le porcherie e maldicenze di una vitalità svanita ed esausta).
La Pentecorvo-family è morta come ogni sogno del ‘meglio del peggio’ o ‘del peggio del meglio’. Chi sa chi e chi ancora addomestica una cena di ritrovo quando il nuovo nato deve avere un nome e forse anche i vecchi (di ieri come coglioni di oggi) devono ricordare il loro nome. La terrazza su Roma e il bottiglione da bere (di un migliaio di euro) sono lo spruzzo di una neve edulcorata (scomparsa e estinta) che si vuole (a tutti i costi) sopra le catacombe secolari (mentre il cimitero del ventennio fa ancora litigare aspramente).
Paolo (Pontecorvo) e Simona, Betta (Pontecorvo) e Sandro con l’amico Claudio: ecco che i cinque si ritrovano per una cena insieme, una chiacchierata e una scazzottata di parole acide. Tutto parte dal futuro nascituro di Simona e Paolo che vogliono manifestare notizia e entusiasmo vita e miracoli ma soprattutto il nome da dare al futuro ‘erede’ di una famiglia alla sbando. Ecco appunto ‘il nome del figlio’: tutto da dire, discutere per infoiarsi a vicenda e scrutare i destini di un passato-presente lurido, viscoso, sornione, succulento, morente e cadaverico. E il nome quale sarà? Tutto da questo.
Il soggetto del film è tratto dalla piece teatrale ‘Le Prénom’ di Alexander de La Patellière e Matthiu Delaporte (da dove era stato già tratto il film francese ‘Cena tra amici’, 2012) con inizio simile ma con strade diverse per ambiente, storia e, naturalmente, personaggi, capitolini.
Il nome sarà…’Benito’ e apriti cielo per Sandro che non ci vede più: rinvanga tutto quello che il nome porta (Mussolini naturalmente) e l’Italia fascista in piena ancora da togliere: con un professore universitario sinistro-so come non mai e una cultura piena di tutta in quella casa rimbomba come, e peggio di, una bestemmia il nome del futuro nato che viene ‘rivelato’ da Paolo (anti tutto, non allineato, assennato, agente immobiliare stra-tutto, accattivante e rompi-paniere) che non soggiace a nulla e prenda alla berlina tutti ad iniziare da sorella e cognato (‘vota centrodestra alla prossima…’ e la nevrosi passa…una medicina…edificante…) senza sapere una riga del libro della sua Simona (scrittrice perdente e senza vendita…cartacea) e tanto meno la storia mentre Sandro si inorgoglisce (inutilmente delle sue trecento-quattro cento copie) dei suoi saggi…mentre accultura l’assemblea famigliare con frasi morali e discorsi filo-antropo-filosofici… (Kant…e dintorni). Mentre l’amico Claudio (con soprannome da rivelare ‘la prugna‘) ha una storia che non ti aspetti con una donna con figli e futura nonna… Che armonia, che commedia, che botte e che facce da festa strampalata. E’ il fragore di un funerale che cammina mentre…la vita esce (dal vero) dal grembo di Simona. Un pastrocchio di cose e di vi(ri)ltà illusorie. Le donne si agguantano mentre i maschi s’arrangiano. I(n)fatti (dicono) il futuro è donna. ‘E’ una femmina’ grida Paolo (‘speriamo che sia femmina’ diceva il titolo ‘monicelliano’) mentre la regista con calma e ispirazione riprende il gusto di una vita dispersa e dispersiva con un grumo di teste (ben)pensanti che credono di gestire vita e dinastia famigliare. I perdenti sono sempre sottomano e non sono i vicini di casa (e il parcheggio ‘suv’ del ‘bollito’ Paolo ridesta la speranza di una schiuma in testa per l’umilio di un paese alla deriva: la zattera è piena di scheletri).
Alessandro Gassman (Paolo), Valeria Golino (Betta), Luigi Lo Cascio (Sandro), Micaela Ramazzotti (Simona) e Rocco Papaleo (Claudio) raggruppano bene l’appeal del racconto pur con tratti e caratteri non ben delineati. Ciò che manca è l’asciuttezza del dibattito con incisivi e ficcanti orologerie parlanti contro mentre (sembra) di troppo l’uso e il ricorso a vocaboli e gerghi rituali e di facile presa. Sarebbe stato altro film? O un altro approccio senz’altro. Certo siamo vicini come luogo a film di ‘Scola’ in memoria (da ‘La terrazza’ a ‘Una giornata particolare’) ma certo che il parterre attoriale è cambiato (come dei fantasmi si aggirano sul set…). C’è poco altro da aggiungere. E se poi le canzoni aggiustano le cose in percorso narrativo il discorso è oltremodo leggibile.
La regista romana detta i tempi in modo giusto e ha un’inquadratura degli interni non angustiante e di movimento mentre il panorama romano sembra appetibile ma è solo un gioco di vizioso effetto che porta ‘la cena’ ad una riunione di poca compiacenza nonostante si ‘conoscono’ con i loro esuberanti vizi (il ricalco di un gioco che si è visto). L’Italia di una serata nell’Italia da augurare per un(a) figlio(a) nato(a) per non perdere la (speranza di una) vita.
Voto: 6½ .