In un posto bellissimo: la recensione di Pierre Hombrebueno

Il disagio esistenziale che s’insinua nell’apparente perfezione della vita quotidiana, facendo crollare tutti i finti castelli che ci siamo impegnati a costruire nell’arco degli anni: una famiglia, un lavoro, degli amici; in una parola, la stabilità. Ma il risveglio, così lento e inesorabile, sta nei dettagli: nel marito che ti zittisce, nel silenzio assordante durante le cene di gruppo, nei fantasmi del passato che si mettono a bussare, dando una scossa alla routine.

È un racconto di tarda formazione, l’opera seconda di Giorgia Cecere, la quale si attacca alla sua protagonista Isabella Ragonese per scardinarne le certezze, accompagnandola in un percorso di crescita e autoconsapevolezza. Tutto, allora, diventa metafora: ci si iscrive a scuola guida non solo per usare la macchina, ma anche per mettersi finalmente al volante della propria vita, imparando a sorridere nonostante il cuore inquieto.
La regista opta per un approccio il più delicato possibile, e la pellicola pecca probabilmente di un’eccessiva tranquillità vicina alla sedazione. Eppure, sa anche cogliere e catturare dei particolari evocativi: un semplice battito di ciglia o uno sguardo nel vuoto, una veloce battuta o una lacrima trattenuta negli occhi.

In un posto bellissimo è una pellicola che non esplode mai, e, contrariamente a molti drammi italiani, lascia da parte eventuali scleri di coppia in cui il mondo pare cadere tra urla e piatti buttati contro il muro; al contrario, una volta tanto abbiamo una cinepresa che pedina ma non invade, delle immagini che preferiscono lasciare una sfumatura di suggestione, piuttosto che un’aggressione. Insomma, trattasi di un’opera in cui a risaltare maggiormente è il costante mood, piuttosto che la vera e propria concatenazione narrativa, e sebbene alcuni momenti possano risultare troppo costruiti, a rimanere addosso è una tangibile emozione vicina alla malinconia.

Allora, nonostante ogni possibile dolore e sofferenza, per quanto quel «posto bellissimo» possa essere solamente un’utopia illusoria, forse varrebbe veramente la pena non smettere mai di cercare, perché come intonava una vecchia canzone struggente, «sai, si muore un po’ per poter vivere».

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Mi piace: Le sottili emozioni che il film riesce a iniettare nonostante la sua pacatezza.

Non mi piace: Alcune scene troppo anestetizzate.

Consigliato a chi: A chi non sopporta più le urla del cinema italiano.

VOTO: 3/5

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