Inception: la recensione di Eddie Morra

Fugace, mi librai nei sogni immaginifici della “realtà”… Capto palpiti nervosi che scuoiavano la mia pelle, lacerazioni emotive a brancolar dentro incogniti, innafferrabili clamori dell’innocenza a scolpirmi dentro una “statua” abrasiva ma di vetro, una plastica armonia sfiorata dai respiri incessanti d’un battito sempre più forte. Sangue & metallo, immaginazione e fuga, o un labirinto dai gineprai agghindati del loro shining, nella mente che ricorda, sfiora infantilismi cauti che s’ammorbidiscono nella Notte, bussan, anzi, di chetezza, di liquorico enigma, per quel che sei allo specchio, entità sfuggente tra “lenzuola” asfittiche d’ormoni che persero la ribalderia e, in una maschera guascona dal lagrimante trucco, si dissuasero dal viverla. Sono i filamenti sinaptici di Leonard Shelby, investigatore che non scova se stesso, se non in frammentarie luci che ne abbaglian, quasi “spaurite”, una coscienza che s’impaurì, tentennò o forse, in vagiti e in un taglio violento d’insostenibile sanguinolenza ad aspergersi e “tergere” il dolore e il trauma, si disperse nel buio.
Memento (in)sondabile che piange silente dentro un corpo muscolarmente “anoressico”, di zigomi raggrumati in una insomnia perenne, glaciale “svanitezza” ch’obnubila i passi, li arcua di mistero, nell’Alaska dell’anima, nelle fulgide cascate d’un desiderio-stigmate o solo stinto in occhi lapidari a (non) squarciarsi. A non viversi in un Cuore dalle funeste tortuosità. “Inception”, capolavoro osannato di Nolan, che ha anche il suo “bel” nutrito esercito di detrattori. Chi, miope, vede sempre “difetti” al sentimento e critica le “sofisticate” architetture senza basi emozionali.

E’ un altro viaggio, “in camuffa”, nella follia, a smarrirsi per approdare dall’altra parte del Mondo, proprio dove il sogno incontrò la nostra peggiore fantasia.
Kobb, “lo specialista” d’un lynchiano paradigma confutabile, dalle regole molto labili, perché si entra nella zona “REM” delle umane, oniriche virtù d’ognuno di noi. Un deprogrammatore di ciò che non decifrò Freud né mai carpiranno i suoi “eletti” estimatori, un ladro rubato alla sua vita per “ingannarsi” di vivere quelle degli altri. Dom passeggia elegantissimo lungo, in lungo e in tondo, a trecentosessanta gradi o avviluppandosene, in una Parigi “mortifera” incendiata appena deflagra il neurone “impazzito” d’una memoria scollegata. E’ sempre “in ghingheri”, soffia però appena appena o in apnee nel suo Cuore, se non ricordandolo, un’eterna prigione che s’affaccia sul mare o in una città futuristica dai grattacieli “strampalati” nelle sue plumbee immersioni a toccare le sue labbra, una Lei che lagrima inascoltata, urla, si dimena perché Lui ritorni in sé e se n’innamori ancora, di loro e del baciarsi assieme. Forse, nel romanticismo che smarrì, nei meandri che s’ingarbugliarono “spiando” le imperscrutabili laconicità “sintetiche” di “chi dorme”.
“Inception” è moderna poesia, sbarco del Cinema che ha già intravisto se stesso, come ciglia bagnate nei nostri umidi deliri.
Un respiro che corre sinergico entrando nelle nostre anime che non si capiscono, che batton, “ermetiche”, di Notte, lustrate dalla speranza, dal cogliersi vive mentre gli occhi son socchiusi, forse, per sempre, rinati. (Stefano Falotico)

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