Interstellar: la recensione di The_Diaz_Tribe

Un presente sulla Terra non più vivibile e un futuro in attesa di essere esplorato, attraverso un viaggio – al limite del pensabile – nelle galassie di un pilota con grande spirito d’avventura e sacrificio, legato da un rapporto con la figlia, sviluppato con sconvolgimenti temporali, come non si erano mai visti al cinema. Christopher Nolan è arrivato a dirigere, dopo i tre cortometraggi, il suo nono lungometraggio, il quarto sceneggiato insieme al fratello Jonathan: Interstellar.
Lo sci-fi Interstellar riporta la società a una condizione pre-industriale, in cui l’economia non domina più, e l’unico modo per riuscire a sopravvivere è ritornare braccianti, se non fosse per i raccolti che sono distrutti sistematicamente da una nuvola di polveri di portata gigantesca. La Terra non è più un pianeta abitabile e le garanzie per la salvezza della sua popolazione si estendono a solo una generazione successiva. Non si tramandano più le imprese eroiche nello spazio, come quella del 1969 sulla Luna, e non c’è più posto per la scienza e per gli astronauti. Cooper – Matthew McConaughey, con la carriera sempre in ascesa dopo l’Oscar di Dallas Buyers Club e la serie tv True Detective – è un ingegnere ed ex pilota spaziale, vedovo, costretto all’agricoltura per mantenere due figli. Entra poi in contatto, insieme alla figlia Murph (la giovane Mackenzie Foy, qui bravissima, già vista negli ultimi due film conclusivi di Twilight), con un gruppo segreto di scienziati della NASA, capitanati dal Professor Brand (Michael Caine, alla sesta collaborazione con il regista) che ha scoperto l’esistenza vicino a Saturno di un wormhole, un cunicolo spazio-temporale che permetterebbe di raggiungere altre galassie alla ricerca di nuovi pianeti abitabili. Cooper sarà poi spinto a lasciare suo malgrado la famiglia per salvare l’umanità futura, intraprendendo la lunga spedizione esplorativa, con un gruppo composto anche dalla figlia del professore, Amelia Brand (Anne Hathaway).
Nolan ritorna al genere fantascientifico, dopo Inception, misurandosi con e omaggiando quel colosso di Kubrick che è 2001: Odissea nello spazio: lo si vede bene nell’intelligenza artificiale mobile, TARS, della navicella Endurance, che ricorda per forma – e per fortuna non per intenzioni – il monolite dell’incipit di 2001; un’altra scelta, coerente al capolavoro di Kubrick, sta nel contrasto tra le musiche (orchestrali e da requiem) di Hans Zimmer, per momenti didascalici o al contrario più epici e concitati, e la totale assenza di suoni nelle inquadrature dei moti quasi danzanti della navicella Endurance, con campi lunghi e lunghissimi, nell’infinità e nel vuoto assoluto dello spazio.
Il regista della trilogia del Cavaliere oscuro ricrea però una fantascienza in cui il viaggio è pura esplorazione, come se Cooper fosse un “cowboy spaziale” alla ricerca di terre selvagge da colonizzare, le quali, per ironia della sorte, non si trovano più come una volta sul nostro pianeta, un tempo perfetto alla vita e allo sfruttamento, ma altrove: finzione cinematografica che non sembra poi così distante da quello a cui stiamo andando incontro. Il parallelismo si può fare anche con l’Ulisse di Omero, per il viaggio intrapreso dall’astronauta, costretto a lasciare i suoi figli per perseguire l’obiettivo più nobile, con il desiderio però forte e costante di ritornare a casa per riabbracciarli. Se Ulisse non conosceva i rischi dell’impresa che doveva compiere, Cooper al contrario ne è ben consapevole, e lo dimostra l’ottima e sicura performance di McConaughey, che in un suo primo piano sensibilmente più lungo diventa struggente e fenomenale nei panni del padre, diviso dalle distanze che lo separano dal figlio e ancora più dalla figlia Murph che non ha mai voluto che il genitore lasciasse casa: le scene intimistiche più riuscite sono infatti quelle delle visualizzazioni dei videomessaggi inviati a Cooper e ai membri dell’equipaggio. Perciò merita molto citare l’inconsueto rapporto padre-figlia del film, che è il leitmotiv dell’intera vicenda, pur essendo un film che è impregnato delle teorie scientifiche del fisico teorico Kip Thorne (tra i produttori esecutivi del film) – anche se, chi scrive, ha letto che gli aspetti scientifici nel film sono stati trattati da Nolan con una certa dose di licenza poetica. Sicuramente, essendo uno sci-fi e soprattutto un film di finzione, è difficile capire perché dovrebbero essere prese di punta le incongruenze scientifiche.
Dopo l’amore, parlando di tunnel spazio-temporali si va così irrimediabilmente a sbattere nella seconda tematica del film: il tempo. Esso diventa fondamentale a due livelli: da una parte, all’interno del racconto, essendo una tematica che ritorna più volte nelle conversazioni e nelle sfide degli astronauti; dall’altra, nell’uso particolare di una narrazione, che costruisce un tempo del discorso affidandosi a un montaggio tipicamente “nolaniano”, già sperimentato in Inception, e qui potenziato. È un montaggio che fa procedere due linee della trama in modo parallelo, permettendoci di vedere quello che accade sulla Terra e quello che accade a Cooper e i suoi compagni, intrecciando e facendo dialogare in maniera fluida eventi distanti. Parlando ancora del montaggio, il suo ritmo non è omogeneo, tutt’altro rispetto a Inception, perché in certi momenti è particolarmente lento e in altri subisce delle forti accelerazioni che portano alla concitazione delle scene più dinamiche e/o drammatiche.
Tralasciando un finale che occupa poco spazio e, forse, troppo sbrigativo rispetto alla durata complessiva del film, di quasi tre ore (il più lungo di Nolan), ci si trova di fronte a un quasi capolavoro. Un quasi capolavoro segnato, oltre da quanto detto sopra, ancora una volta da una narrazione originale in cui la concentrazione è cercata e richiesta per piacere dello spettatore, da una fotografia con splendidi giochi di luce e una scenografia non aiutate dalle tecniche digitali e rimaste fedeli alla tradizione analogica: quello che si vede è, come sempre ha agito il regista, quasi solamente il frutto di una messa in scena sul set, e non di materiale aggiunto con la computer grafica in fase di post produzione.
Davvero un ottimo lavoro Nolan.

Voto: 4,5/5

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