Uscendo dalla sala che riprende vita, mentre sullo schermo buio scorrono gli interminabili titoli di coda, in un modo o nell’altro si ci sente soddisfatti, leggeri, quasi come sotto l’effetto di un misterioso incantesimo. Non so dire se questo stato d’animo sia frutto dell’atmosfera fiabesca creata dalla visionaria mente di del Toro, o della tiepida colonna sonora di Desplat che sembra traghettarci indietro nel tempo, o ancora della scenografia curata e grottesca dove ogni singola cosa assume una sfumatura turchese ( e badate bene non verde) ; ma una cosa é certa. Ancora una volta il regista messicano é riuscito a stregarci, a renderci spettatori inermi del suo racconto, del suo mondo così diverso ma così dolce al tempo stesso, così macabro eppur romantico, tanto irreale quanto realistico, attraverso quell’intruglio di magia e dramma che non eravamo più abituati ad assaporare dai tempi dello stupendo “Il labirinto del fauno” (2006).
Si perché l’oramai acclamato “The shape of water”, leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia e ora in corsa con ben 13 nomination all’Academy, é nella sua semplicità, come lo ha definito il regista stesso ” una fiaba per tempi difficili”. Ci troviamo infatti nell’anonima Baltimora degli anni ’60, in piena guerra fredda, e in uno dei laboratori del governo degli Stati Uniti, su cui si sono posati gli occhi dei Sovietici, è appena arrivata dal Sudamerica una stana creatura, un uomo-anfibio le cui particolari capacità potrebbero essere lo strumento per realizzare un primato nello spazio battendo così in anticipo il nemico Russo. Le sorti del mostro cambieranno però con l’entrata in scena di Elisa Esposito, che in quel laboratorio si occupa di pulizie e che rimane subito affascinata dal nuovo ospite. Una trama dunque semplice, per certi versi banale, ma costruita con una tale maestria e una tale passione nonché amore da parte di Del Toro, da assumere qualità uniche ed eccezionali che rendono questo film un mini-capolavoro.
Tutto viene realizzato ad hoc nei minimi particolari, con attenzione quasi maniacale, a partire dai personaggi, che costituiscono nell’insieme un’esaltazione della diversità, un riscatto della gente comune e apparentemente insignificante. Sally Hawkins, bravissima, é l’emblema della donna comune, semplice, che ripete ogni giorno una routine consolidata, e la cui mancanza di voce viene facilmente rimpiazzata dalla logorroica amica Vanda (Octavia Spencer). Richard Jenkins é invece l’amico (unico) illustratore di Elisa, la cui vita colma di tristezza sia sul piano lavorativo che sulla propria omosessualità ostracizzata, trova riscatto nel mostro, un personaggio che ancora una volta Doug Jones riesce a rendere umano, mediante gesti, sguardi e teneri versi.
Un film poliedrico, che mescola il thriller alla componente romantica, il macabro alla commedia, in quello che vuole essere anche un grande omaggio alla settima arte, a quel cinema ( che nel film vediamo sempre mezzo vuoto) che in un certo senso “ha salvato” del Toro, e attraverso il quale il regista messicano riesce a portare alla luce la propria visione sfaccettata della vita, difficile si, ma piena di amore e tenerezza anche da parte di un mostro, che nella sua umanità più sincera mostra al contrario tutta la mostruosità e bestialità dell’uomo. Ecco allora che oltre al “Mostro della laguna” del 1954 di Jack Arnold, troviamo tantissimi riferimenti e omaggi alle grandi pellicole del passato, tra le quali sicuramente anche l’ET di Spielberg dai poteri curativi e alla televisione degli anni 50. La stessa Baltimora appare immersa in un’atmosfera parigina, incantata, grazie anche alle musiche di Alexandre Desplat e alla fotografia pittorica di Dan Laustsen, che attraverso luci, colori saturi, accesi e continui richiami all’acqua crea un “file rouge”, un dipinto che culla lo spettatore dalla poetica sequenza d’apertura fino all’epilogo della storia.
Merita dunque “La forma dell’acqua” il caldo elogio di critica e pubblico all’unanimità? Forse non del tutto. Eppure risulta veramente difficile non restare rapiti dalla magia di questo film, al quale non servono budget spropositati ( appena 20 milioni circa) per regalarci un apparato visivo spettacolare, per creare una storia d’amore che sa in parte di già visto, ma la cui narrazione è realizzata in maniera raffinata e capillare finendo così per assumere un tocco di originalità e novità . È vero, questa é una storia “assurda e assurdamente semplice”, ma forse proprio in questa banale assurdità si cela il successo di una pellicola che non mostra eroi o eroine, vincitori e vinti, ma soltanto mortali, alle prese con la vita di ogni giorno, il cui destino viene però sconvolto non dal principe azzurro delle solite fiabe, ma bensì da un mostro, quello nel quale del Toro mette veramente tutto se stesso, tutta la sua filosofia e la magia di un cinema che riesce ancora ad emozionare.
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