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La preda perfetta – A Walk Among the Tombstones: la recensione di loland10

La preda perfetta – A Walk Among the Tombstones: la recensione di loland10

“La preda perfetta” (A Walk Among The Tombstones, 2014) è il secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore della Florida Scott Frank.
Un cinema di genere che di legnosità barlume ogni cospirazione tra bui, contro-bui, fuori campo, racconto e chiose subliminali in un volto unico e perenne(mente) indisturbato tra vicoli e bar di una città disperante. Senza mai staccarlo (praticamente regge l’immagine del film al 90%) dell’inquadratura in costante riflessione disperdente, l’ex poliziotto Matt Scudder, spinge avanti la camminata con passa d’archivio per far riposare il pubblico dal davanti per un contro spaziale lungo le strade della Grande Mela (di cui si guarda il confine oltre l’agognato skyline ridotto al turismo di lato per scorrerlo e soccorrerlo) che di parte in parte s’arrende alla vita di gente distratta, irrequieta, pasticciata e ingrigita. Tutto diventa uno sconquasso interiore che riesce a reggere il thriller con sangue (calcolato) e respiri (istrionicamente) ironici (da irriverenza quasi ‘selezionata’ per distinguere il prodotto) che ogni sentenza prova a non darci morale o lezione di qualsiasi veemenza di sottotraccia. Il fuoco di una pistola può colpire chiunque se la mano malferma riempie il bicchiere (doppio) di ogni serata (di rara tristezza) perché l’alcool fa andare giù di testa per sentirsi grandi ma la morte non sfugge a nessuno se il cuore guarda solo a se stesso mentre il crimine disegna le scale di una discesa fino all’inferno (con tono rituale da maestria visiva dentro un cartoon di alto rango mentre ogni costume di via innata assaggio la memoria di un investigatore che si riempie del tempo perduto credendo di far bene per un bene che non si vede) in un quadro desolante dove la sconfitta è totale mentre lo schermo va via tra un ragazzo che dorme sul divano e un ‘vecchio’ uomo stanco di se stesso che s’appisola sulla sedia come un western metropolitano incallito fatto fuori da tutto mentre l’inquadratura allontana la finestra di una caserma-palazzo come d’incanto ritrovi la spirale di un uomo che ci guarda come una ‘rear windows’ (non più sul cortile) ma dentro il vuoto andronico di una città-confine detronizzata dalla vita. Altro che vendetta e giustizia!
Matt(hew) Scudder, investigatore di ripiego (per non lasciarsi andare), ciondola nella pellicola in un andirivieni con schermaglie visive tra trambusti, ritrovi, appostamenti e cabine telefoniche che scandiscono i tempi dei suoni e il ‘retrò’ di gesti di funzioni senza palmari e telefonini scaduti o ritrovati nel passato. Gli squilli sono tutti fissi e che il dileggio per il modernismo (in un noir di poca infatuazione post-modernizzata ma di succoso spalmo di casa-madre lineare di pupazzi che calunniano il recondito gioco dei fumetti andati) spadroneggia in un virtuosismo vizioso che colpisce ma ricade in un quadro di un attraversamento famoso (la ragazzina tutta di rosso -e che colore altrimenti-) che in ‘ralenty’ oltrepassa la strada come un rituale da copertina-disco ultra gettonata non disdegna un controcanto che lima e castiga ogni parvenza (‘cinefil’) a sé stante per imbrogliare se stesso e forse ma non ci crede uno spettatore già informato (e di poco conto in una scena da cadenze rituali e semanticamente alquanto scaduta). Ecco che la ripresa è fatta! ‘Vai’ questo non ci interessa sembra dire il male a noi stessi.ma subito dopo ‘Fermati un po’’ quasi a confonderci c’è una scena di inciampo (che ci frena il davanti) e poi ricominciamo a fare quello di prima e ‘a dare da matti!’
Matt è (anche) un (ex) alcolista che trova la sua strada incontrando altri come lui e tra disperati in cerca di redenzione si ostina a non darsi per vinto nel dare la caccia agli assassini della moglie di un trafficante di droga, un certo Kenni Kristo (e già qui lo spiraglio tra bene e male lascia intendere molte cose e anche, forse, un epilogo alquanto esplicativo nei nomi e terminale nei giochi ripetutamente visti come un’attesa gogna di sangue e corpi seduti tra stanze ordinate e sotterranei rapiti dall’orrore) che ricuce ogni cosa (o almeno crede) tranne quella di voler sapere proprio tutto. E i particolari (come sempre in certi frangenti) di voler capire fino a che punto l’assassino si spinge che tradiscono il tutto (il malcapitato marito e il resoconto filmico di un regista che avrebbe dato -omettendo delle inquadrature finali e non solo- allo sguardo nuovo un film di livello più alto -sicuramente- date le premesse e gli ambienti così ben fotografati).
Liam Neeson ci mette il suo ordinario modo di fare (che quasi gli è congruo) per una prova di sicurezza recitata (un nome già in archivio in ‘8 milion way sto dye’, 1986, di Al Ashby dove Jeff Bridgs interpretava Scudder). Certo un attore che, ultimamente cerca di ‘governare’ il suo status fisico con ruoli ‘padroneggianti’ sul para-eroismo. Gli anni ci sono (e qui vanno bene) ma le lotte a ritroso e i giochi facciali mostrano un retrò-gusto (dis)perso con personaggi calcati e caricature di movenze già viste (in altri suoi film migliori e di rango). Come non ricordare un personaggio come il dottor Martin Harris (‘Unknown – Senza identità’ , 2011, del regista spagnolo Jaume Collett-Serra) che ha già l’archivio (prima e dopo è quasi insignificante) di molte prove interpretate dall’attore irlandese (da ‘Taken’ a ‘Scontro di Titani’, da ‘Le Crociate’ a ‘Third Person’) che, senza farsi notare e con identità appunto dispersa, vuole raccogliere il (presunto) meglio per offrire il (possibile) personaggio a tutto tondo per un pubblico vistosamente in attesa del colpo di teatro (e, forse, di qualche tracotanza verbale e fisica). E sì, perché il rientro in casa nella scena finale del film è aver non ritrovato una certa identità (che il nostro liam sembra cercare costantemente), ma un lasciapassare ingannatorio e labile di una perdita della memoria che lascerebbe (o è lì perché non ha da raccontarci nulla) Matt in un oltre(tomba) terreno tra il buio raccapricciante di una New York (piovosa e rintanata) come un ‘oltre’ (recitativo) senza discussione e un eroismo perdente di grande (e rarissima) efficacia narrativa. Che Matt non bevi pù e già (l’)antefatto di gloria di un regista che prova ad essere sobrio (e ci nasconde meccanismi di grande ‘narrazione’ per disperdersi e nascondersi come il protagonista). E mentre Matt sta chiudendo le palpebre (il lavoro di ‘attore’ stanca) il suo collaboratore (uno di quei ragazzi ‘persi’ e senza famiglia che non disdegna il gioco di pedinare il capo mentre sta seguendo non un qualcuno a caso) dorme sul divano del suo appartamento (in alto) mentre la finestra chiude gli spazi di una metropoli (fuori) dormiente nell’angoscia. Matt e TJ possono dormire. Alcol e anemia. Fuori di testa e senza ossigeno. Pioggia continua su New York mentre chi salva chi, è solo da svegliare.
Fotografia (Mihal Malaimare Jr.) di classe, musica (Carlos Rafael Rivera) da recipiente come indica il regista. Scott Frank ci sa fare ma sicuramente può (in futuro) appropriarsi della storia in modo migliore (e più incisivo).
Voto: 6,5.

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