La vita di Adele: la recensione di Marita Toniolo

Ci sono film che cercano di cogliere o imitare la vita, ce ne sono altri che sono la vita stessa. Il film di Abdellatif Kechiche, Palma d’oro a Cannes 2013, appartiene a questa seconda categoria. Un romanzo di formazione fiume (3 ore che scorrono senza accorgersi grazie a uno straordinario senso del ritmo e a una solida struttura narrativa) che scava nella carne e nei sentimenti alla ricerca della spontaneità. Il più bel film dell’anno. E non solo.

Adele ha 16 anni, quell’età nel cui fuoco bruciano le possibilità, e non sa ancora nulla dell’amore. Prova a frequentare un ragazzo, ma con scarso trasporto, e capisce cosa vuole davvero quando le gira la testa in seguito all’incontro con una misteriosa ragazza dai capelli blu.  Da quel preciso momento, non può più mentire a se stessa, lascia il boyfriend e per caso incontra l’oggetto delle sue fantasie in un bar lesbo. Da quel momento Adele vuole solo Emma. Per il resto ama gli spaghetti e i romanzi, vuole fare la maestra, sogna dei bambini e non trova tante differenze tra Sartre e Bob Marley. Emma, invece, sogna di diventare una grande artista, è ambiziosa, libera e radical chic. E tuttavia, a prescindere dalle differenze, avviano una relazione…

Sebbene involontariamente (il progetto è molto precedente) cavalchi l’onda della recente ufficializzazione delle nozze gay in Francia e a dispetto di come è stato promosso da gran parte dell’informazione, La vita di Adele, non è un manifesto omosex, ma l’emozionante racconto della ricerca dell’amore vero da parte della protagonista e della sua progressiva maturazione. Vi si compie l’intero arco sentimentale di una relazione: dalla passione selvaggia e dalle vette della fusione degli inizi alla solitudine e ai cocenti rimpianti e rimorsi delle fasi successive, fino ad arrivare alla piena consapevolezza di sé.
Ed è pur vero che i focosi incontri sessuali lasciano senza parole, ma perché quanto di più vicino al vero si sia mai visto al cinema. Non c’è nessuno scandalo, nessuna pruderie gratuita, solo l’esplorazione sincera della passione femminile. Come se l’autore cercasse di catturare lo slancio vitale del loro amore, immortalando la bellezza di quei corpi avviluppati e accostandosi ai volti persi nel piacere (usando anche più di una macchina da presa). Tuttavia, il vouyeurismo di Kechiche non si fissa sulla sfera sessuale e lascia presto spazio alle altre variazioni sentimentali: nella sua idea di cinema la macchina da presa ha il preciso compito di pedinare i protagonisti, che vengono sempre inquadrati in primi e in primissimi piani e con pochissimi movimenti di macchina, quasi a non volersi perdere un sorriso, una lacrima, una carezza o un’espressione di rabbia.
Una ricerca onesta e genuina della verità che trova due eccellenti complici nelle sue giovani protagoniste – la rivelazione Adele Exarchopoulos (vulcanica!) e Léa Seydoux (già nota al cinema d’autore) -, bellissime e magnetiche, oltre che preziosissime per il loro coinvolgimento totale rispetto al progetto e il loro naturalismo recitativo (il franco-tunisino ha già dimostrato di essere un bravissimo regista d’attori nei precedenti La schivata, Cous Cous e Venere nera).
La vita di Adele è una fucilata al cuore che elegge Kechiche a maestro dell’esplorazione psicologica e sentimentale. Non appartiene alla categoria visioni, ma piuttosto a quella delle esperienze. Che travolgono, scuotono e commuovono.

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Mi piace: perché più che una visione è un’esperienza che travolge e commuove.
Non mi piace:  qualcuno potrebbe trovarlo troppo lungo ed essere disturbato dalle scene di sesso. Per noi si regge su un equilibrio perfetto.
Consigliato a chi: al cinema chiede sempre qualcosa di più.

 VOTO: 5/5

 

 

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