Le due vie del destino: la recensione di Giorgio Viaro

Ci sono storie che valgono la pena di essere raccontate, e di sicuro quella di The Railway Man è una di queste. Eric Lomax (Jeremy Irvine, il ragazzo di War Horse) non ha neppure vent’anni quando la Seconda guerra mondiale lo porta a Singapore. È un soldato, ma è soprattutto un tecnico, è lì per far funzionare le cose, non per distruggerle. Quando tutto il suo battaglione viene fatto prigioniero dai giapponesi e deportato in Thailandia, il destino gli fa uno scherzo: appassionato fin da bambino di treni, si ritrova a costruire una ferrovia in mezzo alla giungla, con 40 gradi e zanzare grandi come calabroni.
Con i compagni, mette allora assieme una radio di fortuna: serve a ricevere informazioni dal fronte, non a trasmettere, ma quando i giapponesi lo beccano non fa una gran differenza.

Rinchiuso, torturato, dato per morto, riesce invece a sopravvivere a tre anni di stenti e umiliazioni, e a ritornare a casa dopo la guerra. 35 anni più tardi (col volto di Colin Firth, forse un po’ troppo giovane per la parte, e ingrigito ad arte), durante uno dei suoi viaggi in treno senza meta, conosce Patricia (Nicole Kidman). La corteggia con quieta decisione, per farla felice si taglia perfino i baffi: la sposa. Con l’intimità, appaiono anche le ferite, tornano gli incubi. E quando Lomax scopre che il suo aguzzino è ancora vivo – e fa la guida nello stesso campo in cui lui fu rinchiuso e umiliato – decide di scovarlo e ammazzarlo.

Non vi diciamo come finisce, e le ragioni del racconto sono oltre lo spoiler. Credo si capisca però che il film, che rimbalza tra quattro decenni, segue un’etichetta da vecchio gentiluomo, modi retrò. Ha i tempi dei romanzi d’appendice, e pure gli argomenti: un po’ di melò, molta guerra, qualche tratto – ma composto – di commedia romantica. La violenza è quasi sempre fuori campo. Non vuole stupire, punta a storie come Il velo dipinto e Il ponte sul fiume Kwai, le cuce assieme, un lavoro ordinato. Si pone soprattutto il problema di onorare la memoria di chi ha vissuto sulla pelle la vicenda, ed è morto appena qualche mese fa, a riprese terminate. Di conseguenza, e giustamente, è un film cauto.
Fa strano pensare che una volta il cinema di Hollywood era tutto fatto di queste cose, e oggi invece un film così può essere solo indipendente.

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Mi piace: l’etichetta vecchio stampo del film, i modi retrò del protagonista.
Non mi piace: non si prende rischi e può essere considerato un film troppo classico.
Consigliato a chi: ai nostalgici delle vecchie storie di guerra mixate al melò.

VOTO: 3/5

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