telegram

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug: la recensione di Matelda Giachi

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug: la recensione di Matelda Giachi

In quella che sarà l’eterna battaglia tra chi si pronuncia a favore de “Lo Hobbit” di Peter Jackson e chi invece vi si pronuncia contro, mi schiero per la seconda volta al fianco dei primi e sono pronta a prendere il comando di qualche battaglione.

“Lo Hobbit”, è destinato a ricevere forti opposizioni per nascita.
Il regista ha preso la favola di Tolkien e l’ha farcita come un tacchino per il ringraziamento. Alcuni ingredienti li ha forniti l’autore stesso della ricetta, altri invece sono frutto della creatività culinaria degli sceneggiatori.
Premettendo che sono comunque sempre più favorevole alle aggiunte che alle detrazioni, rimaneggiare un’opera letteraria a proprio gusto è sempre un’operazione rischiosa che nel 90% dei casi sfocia in una completa alterazione delle vicende e ad uno stravolgimento dei caratteri, quando non anche dei messaggi.
Sono pochi i registi capaci di reimpastare una storia senza tradirne l’essenza. Uno di questi porta il nome di Peter Jackson.
La sua scelta di estrarre 3 film della durata media di 3 ore da un esiguo libriccino ha sicuramente una forte e indubbia componente economica, a cui però si affianca il palese amore per il lavoro tolkeniano, cosa che l’ha salvato da una catastrofica débacle.

Al contenuto originale si affiancano quindi ulteriori rami narrativi e nuovi personaggi.
A tal merito mi sento di dire: se aggiunta è sinonimo di Evangeline Lilly… Ma aggiungiamo gente, aggiungiamo!!!
La sua Tauriel, a capo della guardia elfica di Bosco Atro, ha una personalità forte e ribelle. Molto diversa da Arwen, dolce ed eterea.
Quella a cui appartiene Tauriel è una stirpe di elfi silvani, meno regali e più selvatici di quelli di Gran Burrone.

Con la Lilly, si introduce anche una parentesi narrativa sentimentale che conferma la mia visione di Peter Jackson come un gran romanticone.
Ella, oltre che eroina di molte battaglie, è protagonista di una di quelle, chiamiamole simpatie, tra abitanti di mondi diversi (nei vari sensi possibili del termine, a seconda del contesto) che sia il cinema che la letteratura amano tanto.
Si trova ad essere il fulcro di un’attrazione improbabile e “proibita” e per diretta conseguenza, anche di un triangolo amoroso (gli altri due vertici, spoilerati in realtà in ogni dove, andate a scoprirli al cinema non appena avete smesso di cantare sulle note di Renato Zero).
Se la cosa inizialmente mi ha tutt’altro che convinta, vuoi complici anni di solitudine e un amore spassionato per lo zucchero, ha finito poi per sguazzarci dentro felice come in una vasca a idromassaggio.

L’aggiunta di contenuti non è l’unica deviazione presa dal film rispetto all’originale.
La differenza forse più grande risiede nello stile narrativo.
Tolkien ha destinato le avventure di Bilbo Baggins ad un pubblico infante. Per raccontarle in maniera fedele, si sarebbe dovuto far ricorso forse ad un Chris Columbus, che aveva saputo usare la giusta dose di dolcezza nel riprodurre sul grande schermo le avventure di “Harry Potter e la pietra filosofale”.
Ma Jackson non è un cantastorie, è un narratore epico.
Se questo era già evidente con “Un Viaggio Inaspettato”, con questo secondo film lo è ancora di più. La Contea, con la sua allegria e innocenza è ben lontana. Il male si fa più forte e l’atmosfera si incupisce.

Ma parliamo di lui: Smaug. Un capolavoro di drago.
Strepitoso. Great. Maravilloso. Magnifique. Formidavél. Ausnahme. Ho esaurito le lingue in cui riesco a esprimermi e ancora non mi sembra sufficiente a descrivere la grandezza del lavoro che è stato compiuto nella sua realizzazione.
Bellissimo, sinuoso, perfido. E anche logorroico, diciamocelo.
Ottimo il doppiaggio di Luca Ward, vorrei presto sentire anche il lavoro svolto da Benedict Cumberbatch.

Brevemente, perché mi accorgo di essermi alquanto dilungata: non c’è Bilbo Baggins più Bilbo Baggins di Martin Freeman. Talmente perfetto nel ruolo che si rimpiange la sua diminuita centralità come personaggio. E’ un Bilbo diverso, non è più lo sfigato della compagnia, ma un elemento fondamentale a cui portare rispetto. E un Bilbo su cui l’anello inizia ad esercitare il proprio potere.
Ian McKellen… Beh, non si può che venerarlo.
Luke Evans, molto convincente nei panni dell’arciere Bard è una sorta di nuovo Aragorn, forse un po’ meno intenso ma molto interessante.

Bocciati i truccatori di Orlando Bloom. Il tentativo è stato quello di ringiovanire il Legolas de “Il Signore degli Anelli” che, nella realtà pratica, ha un buon decino in più sulle spalle. Il risultato sembra uscito dal museo delle cere di Londra, dopo aver preso vita come accade nel film con Ben Stiller.
Nonostante tutto, bentornato Orlando.

Nota finale sul 3D HFR. Notevolmente meglio del 3D classico; immagini più nitide, maggiore profondità e meno mal di testa. Continuo a preferire la distanza delle due dimensioni, ma l’effetto è stupendo. Peccato solo che quando le scene aumentano di velocità, come succede durante i combattimenti, l’impressione sia quella di essere proiettati dentro un videogioco. Fastidioso ed orribile.

Che voglia di tornare al cinema a vederlo ancora. E ancora. E ancora.

Voto: 9/10

© RIPRODUZIONE RISERVATA