Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: la recensione di Alessia Pelonzi

Per chi non se ne fosse accorto, il 13 Dicembre i cinema del nostro paese hanno proiettato per la prima volta “Lo Hobbit: Un viaggio Inaspettato”, primo capitolo della nuova trilogia targata Peter Jackson. Da quando, nove anni fa, aveva concluso “Il Signore degli Anelli”, il mondo di fanatici tolkeniani, di cinefili o anche solo semplicemente di estimatori della Trilogia dell’Anello era rimasto per così dire orfano di un genitore superlativo, conosciuto e amato troppo in fretta. Era logico aspettarsi, prima o poi, un ritorno del signor Jackson nella Terra di Mezzo tanto efficacemente resa in quelli che rimangono, tutt’oggi, i suoi maggiori capolavori.

Chi scrive non è certo rimasta immune dalla fascinazione esercitata dal mondo magico evocato da Jackson sul grande schermo; se a questo aggiungiamo che, all’epoca del rilascio dei tre film, la sottoscritta viveva il culmine acneico e sognatore della propria adolescenza, si avrà un quadro più che verosimile del mio entusiasmo all’annuncio di un nuovo dittico cinematografico tolkeniano. Eh già, i film dovevano essere due. E per quel che mi riguarda, storcete pure il naso, sarebbero stati insufficienti a saziare la mia fame di fantasy, a lungo sopita.

Badate, non sono un’estimatrice del genere. Non lo ero prima di vedere “La Compagnia dell’Anello”, non lo sono ora che ho visto Lo Hobbit. Probabilmente, non lo sarò mai. Ci sono però dei casi specifici in cui il mio interesse viene inevitabilmente risvegliato, come l’interesse di un detrattore di storie d’amore verrà quasi certamente risvegliato dalla lettura di “Anna Karenina” o “La sonata a Kreutzer”. Di fronte ai capolavori è impossibile restare indifferenti, e “Il Signore degli Anelli” è, che lo si ami o meno, l’acme inarrivabile del suo genere letterario.

Trarre un capolavoro da un capolavoro è un’impresa titanica, difficilissima e quasi mai portata a termine. Jackson ci riuscì, e già era il caso di gridare al miracolo. A nove anni di distanza, era davvero troppo sperare che l’evento si ripetesse?

Evidentemente no.

Ho già scritto una lunga recensione de “Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato” per conto di un’altra testata, e so cosa state pensando: “ma se hai già scritto una recensione, che caspita stai facendo qui?”
Legittimo dubbio, ma a mia discolpa dico che, di film come questo, ne capitano davvero pochi durante l’anno. Perché sì, signore e signori, “Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato” È un capolavoro. Lo è come può esserlo un quadro impressionista, di cui ci sfugge il senso della singola pennellata, ma che assume la forma del sublime non appena ci allontaniamo per dargli un’occhiata d’insieme. Lo è per il modo esemplare in cui ha preso ogni singola pagina di un libro che, con tutta probabilità, capolavoro non è, per svilupparla al suo massimo potenziale. Lo è per il gioco superbo con cui semina elementi estranei al romanzo d’origine dedotti da altri scritti tolkeniani (in particolare le appendici de “Il Signore degli Anelli”), tramutando quella che inizialmente ha l’aria di una scampagnata di una contessina annoiata (Bilbo Baggins) insieme ad uno stuolo di nani voraci, in una caccia epica in cui intravediamo l’ombra oscura della catastrofe che sfocerà ne “Il Signore degli Anelli”. “Lo Hobbit” è un libro per bambini, decisamente disimpegnato, a cui Tolkien però rimise mano più volte nel corso della vita, intuendo evidentemente il potenziale drammatico dell’avventura di Bilbo. E a Jackson va il merito di aver concretizzato quest’intuizione, almeno per quel che lascia ipotizzare questo primo capitolo.

È vero, per la prima ora il film ci mostra praticamente solo l’allegra vita dello scapolo Baggins, tutto concentrato su centrini, piatti e giardinaggio. Irrompono i nani, certo, ma l’atmosfera leggera non cambia (se non nel toccante momento della canzone davanti al fuoco, che forgia la solida base di un tema musicale superiore a quelli sentiti nella trilogia). E non cambia neppure quando Bilbo intraprende il suo viaggio con la chiassosa combriccola, a cui dannò maestà e rigore solo Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage, che ha vinto il mio scetticismo in fatto di maschi tarchiati e irsuti incarnando il primo nano davvero bello della storia del cinema) e Gandalf il Grigio (immenso Ian McKellen, perfetto dall’inizio alla fine, ancora una volta come sempre). Se ad una prima visione confesso che questa prima macrosequenza narrativa mi aveva avvinto meno delle successive, rivedendo il film ieri sera ne ho potuto ammirare la pienezza ed efficacia alla luce del seguito. La bonaria luminosità della prima parte del film prepara il terreno al balzo in avanti deciso verso tinte fosche e drammatiche, che giunge verso la fine ad un passo dalla vera e propria tragedia. Ciò rende, a mio parere, l’arco evolutivo della vicenda di “Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato” assolutamente superiore a quello mostrato in “La Compagnia dell’Anello”, in cui da subito aleggiava sui protagonisti un’aria di cupa fatalità. Frodo sa perché deve partire, non conosce la minaccia che grava sul suo capo e sull’intera Terra di Mezzo ma ne intuisce il potere distruttivo. Bilbo è nella situazione opposta: parte per un’avventura e, via via che lo seguiamo, percepiamo il suo crescente smarrimento, la sua sorpresa di fronte a forze che non avrebbe mai ipotizzato di dover fronteggiare. Grazie a delle sapienti aggiunte da parte di Jackson e compagni sceneggiatori, la strada di Bilbo si delinea fin da questo primo episodio come un cammino dritto dritto nel cuore dell’apocalisse, e il fatto che il protagonista continui a non rendersene conto non fa che aumentare la nostra simpatia nei suoi confronti, cosa che mancava totalmente nei confronti dell’altro protagonista tolkeniano. Potevamo essere affezionati a Frodo, compatirlo, persino ammirarlo, ma non ci stava simpatico. Bilbo conquista grazie alla sua umana debolezza che, nei momenti più impensati, ne fa emergere ancora di più il valore. “Non sono un eroe”, dice ai compagni nani, e nessuno osa contraddirlo. Eppure il suo eroismo è mastodontico, travestito da necessità e da impulso del momento, è un eroismo casuale e assolutamente inspiegabile per lui e per chi lo osserva. L’eroismo improvviso e naturale di certi uomini ordinari, che assumono di punto in bianco una statura eccezionale proprio perché nessuno si aspettava niente da loro, in primis loro stessi.

Peter Jackson ha fatto di tutto per avere Martin Freeman nel ruolo di Bilbo, e la chiave della riuscita del personaggio sta proprio nell’aver preso quest’ometto inglese, ben lontano come curriculum dalle atmosfere eroiche della saga de “Il Signore degli Anelli”, e calarlo in un contesto nel quale il suo spaesamento, la sua inadeguatezza ed il suo disagio formassero lo scheletro adamantino di un protagonista universale. Crediamo alla sua nostalgia di casa e crediamo allo stesso tempo al suo subitaneo innamoramento per la patria degli elfi, perché è lo stesso innamoramento che proveremmo anche noi nella sua situazione. Noi, uomini ordinari, non condottieri, non fate, non maghi. Se nel libro il lato eroico di Bilbo non viene mai propriamente a galla, nell’adattamento cinematografico assistiamo ad una crescita epica della storia in parallelo con quella, interiore, del giovane hobbit. Come Ulisse stravolse l’epos con i suoi drammi ordinari calati in un contesto straordinario, così fa il Bilbo di Jackson, dando vita ad un poema il cui primo tomo appare, alla luce di questa revisione, meritevole di tutte le ovazioni possibili. I critici possono passare le ore a dichiararsi schifati, agghiacciati, orripilati dalla singola battuta: il mio consiglio è di farsi un giro al Musée d’Orsay di Parigi, dove vengono custodite le maggiori opere dell’Impressionismo francese. Di pennellate messe male ne troveranno a migliaia, ma scompaiono tutte di fronte al quadro d’insieme.

Prendere un capolavoro letterario e renderlo un bel film è tanto, tantissimo. Prendere un bel libro e tramutarlo in un capolavoro cinematografico è il massimo a cui possa ambire un cineasta. E se non è un miracolo questo, allora giuro che non parlo più.

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