Mad Max: Fury Road: la recensione di Jacopo 98

In un futuro imprecisato la Terra è ridotta ad una landa desolata e desertica, attraversata solo da bande armate di folli a cavallo di colossali vetture. La più importante di esse, comandata dal feroce Immortan Joe (Keays-Byrne), ha sede in una cittadella scavata nella montagna, nella quale egli ricerca disperatamente un erede maschio sano, violentando periodicamente le sue cinque concubine predilette. Fuori dalla cittadella i sudditi vivono allo stato bestiale, attendendo l’acqua e il cibo che talvolta il crudele leader rilascia dalla fortezza. L’Imperatrice Furiosa (Theron) aiuta però le concubine e fuggire e inizia così un inseguimento senza tregua in cui Immortan schiererà tutto il suo esercito di folli. Furiosa sarà invece aiutata dalla “sacca di sangue” ex-poliziotto Max (Hardy) e dal “figlio della guerra” Nux (Hoult), oltre che da un gruppo di conterranee alla ricerca di una nuova casa. George Miller, assieme a Brendan McCarthy e Nico Lathouris, ha riportato in vita la sua storica saga post-apocalittica, con un’operazione che in realtà sa di più di reboot che non di sequel: ma Fury Road non è solo un nuovo capitolo che ben si inserisce nella continuità temporale della saga, ma un’opera eccezionale, assoluta e autonoma. Infatti la verità è che Mad Max: Fury Road ha ben altre ambizioni che limitarsi a continuare le avventure del poliziotto: esso vuole essere una eccezionale riflessione cinematografica sia sul modo di fare cinema (e Miller impartisce vere e proprie lezioni di regia e storytelling qui, ma ne parleremo dopo), sia uno sguardo possente e inventivo su un futuro apocalittico incerto come non mai. Il film infatti è primordiale nelle sue scelte narrative, essendo di fatto il più spettacolare e importante attacco alla diligenza dai tempi di Ombre rosse (1939!): Miller chiude sulla blindo-cisterna i suoi 8 personaggi principali e per quasi due ore i motori non si spengono mai, l’attacco e l’inseguimento non cessa mai, tranne per qualche saltuario rabbocco d’olio e una pausa prima del gran finale, le parole dette non sono molte, a prevalere sono i suoni, i rumori, le esplosioni, gli assalti perfettamente coreografati, una musica rock incessante, spesso eseguita “in diretta” dai folli seguaci di Immortan Joe, rocchettari guerrieri. Eppure, nonostante tutto, il film offre uno straordinario svisceramento dei personaggi, di cui conosciamo il carattere, il passato e l’obiettivo finale, e tutto questo passa tramite sguardi, movimenti, pochissimi dialoghi (scritti “da dio” peraltro). Quindi una narrazione di essenzialità unica, molto implicita, ma assolutamente efficace e coinvolgente: come ha detto Miller lo svisceramento caratteriale e l’azione spettacolare qui avvengono in sincrono. Ogni azione, ogni movimento di macchina diventa quindi non solo fondamentale, ma anche davvero significativo, emozionante, coinvolgente, sia per l’eccezionalità del girato (di spettacolarità superlativa) sia per la continua indagine sui personaggi, sulle loro emozioni. Proprio per questo è un film che va seguito attentamente, per non perdere informazioni preziose che Miller continua a fornirci ininterrottamente ogni secondo per 120 minuti. Il regista si affida inoltre ad un montaggio serrato di ferocia ed impatto unici (grazie anche al sovente sincrono musicale), che riesce a far vedere in 5 minuti quello che in un’altra occasione ne avrebbe richiesti 10. Dal punto di vista registico Miller è instancabile: il ritmo non cessa mai, i movimenti di macchina sono più estremi che in un film di Michael Bay, e il fatto che tutto ciò che si vede nel film sia stato fatto realmente (i velivoli sono reali, come esplosioni, coreografie ed acrobazie) rende tutto davvero impressionante. La cosa che colpisce è che un regista di settant’anni giri in modo più “cazzuto” che un giovincello in erba di trenta e questa è la sostanziale spiegazione del perché egli quest’anno merita un Oscar per la regia. La scelta delle inquadrature è compiuta con cura, dato anche l’innato intento estetico e l’esplicita estetica di natura pittorica (evidente specialmente nelle scene della tempesta di sabbia, una delle sequenze più belle, nel senso di belle da vedere, che io abbia mai visto). La fotografia di John Seale predilige colori bollenti quali il giallo e il rosso, e pare non conoscere le mezze misure, come dimostrano le magnifiche scene notturne, sostanzialmente blu. Indimenticabili le musiche di Junkie XL, di impatto e adeguatezza uniche. Infine per concludere il vero capolavoro del film è la sua incisività dovuta a delle atmosfere eccezionali, stabilite in pratica soltanto con l’uso dell’immagine: tutta la questione della dittatura di Immortan Joe ad esempio non ci viene spiegata assolutamente da nessuno, ma la intuiamo e la comprendiamo vedendo le immagini potenti dei suoi figli deformi, delle sue schiave a cui viene succhiato il latte dai seni, del suo popolo sofferente ed implorante. Stesso discorso vale per gli iconici veicoli, creazioni di genialità visiva assoluta, piene di dettagli ammirevoli che catturano l’attenzione dello spettatore. Infine a livello tematico è una riflessione profetica su un futuro incerto, in cui è sempre più difficile comprendere quale sia la decisione migliore da prendere. E anche in questo si dimostra un’opera eccezionalmente moderna ed attuale, capace, con due sole, esemplari frasi di riassumere tutto il dilemma del nostro tempo. Le riporto in seguito:

Il mondo crollava… e ognuno di noi a suo modo era a pezzi… difficile capire chi fosse più folle: io, o gli altri…

Dove dobbiamo andare, noi che vaghiamo per questa terra devastata in cerca di una versione migliore di noi stessi?

VOTO 9,5

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