Margin Call: la recensione di Daisy83

“L’agnello cominciò a seguire il lupo nelle vesti di una pecora” (Esopo)
Margin call è un termine finanziario per indicare una tipica operazione speculativa che consiste nella richiesta fatta all’investitore, da parte di un intermediario, di aggiungere una somma di contante o titoli di Stato da depositare, come garanzia, presso lo stesso intermediario. Questa richiesta viene fatta, in parole povere, se, a causa del variare delle condizioni di mercato, il margine disponibile a tutelare l’intermediario dalle eventuali perdite non è più sufficiente. Così, se il cliente non fornisce il margine richiesto, corre il rischio che le sue posizioni vengano chiuse in modo parziale o totale in seguito alla decisione dell’operatore finanziario, proprio perché non ci sono fondi sufficienti.
È quello che succede nella banca di credito finanziario presa come esempio dall’esordiente regista J.C. Chandor per descrivere l’inizio della catastrofica crisi del 2008 negli States. Eric Dale, licenziato dalla società, è costretto a racimolare i suoi effetti prima di essere tagliato completamente fuori dai suoi capi, ma riesce a consegnare la chiavetta usb con il suo lavoro ad un brillante analista, Peter Sullivan, che lo porta avanti, inserendo dati che mettono in luce un responso fatale. Peter dà l’allarme e si convoca una riunione notturna nelle alte sfere della società. E’ il momento cruciale per decidere il destino della compagnia e per fare i conti con la loro etica.
Ai vertici della società troviamo, in ordine crescente di gerarchia, Will Emerson (un ottimo Paul Bettany), l’analista Sarah Robertson (sempre stupenda Demi Moore), Sam Rogers (invecchiato e sofferente Kevin Spacey, ben lontano dalle turbe di American Beauty), Jared Cohen (uno spregiudicato Simon Baker), e, infine, il demoniaco John Tuld (convincente Jeremy Irons in versione Gordon Gekko). Ovviamente tutto fa riferimento alla Lehman Brothers e perfino il personaggio di Tuld richiama palesemente Dick Fuld, che fu proprio l’amministratore delegato della Lehman Brothers e uno dei principali responsabili della crisi del 2008.
Tornando indietro e analizzando la situazione che generò la catastrofe diramatasi, poi, a livello mondiale, è importante tener presente che tutto ebbe origine dalla speculazione compiuta dalle banche, in periodo di deregulation, sui mutui subprime. Quando iniziò ad espandersi la bolla speculativa dei mutui, il fenomeno fu amplificato dal fatto che le banche statunitensi, per ridurre il rischio dell’esposizione rispetto a questi prodotti finanziari, vendevano, ad altri, i mutui stessi attraverso strumenti come, ad esempio, gli MBS – Mortgage Backed Securities, come spiega Sullivan a Tuld, ovvero titoli derivati garantiti da mutui ipotecari, che combinano diversi livelli di classificazione di rating. Gli MBS sono comparsi negli Stati Uniti negli anni Settanta, quando il governo voleva creare un mercato secondario per i mutui e i finanziamenti all’edilizia residenziale. Questo processo di cartolarizzazione portato avanti con gli MBS, chiaramente, moltiplicava i rendimenti dei mutui, ma contribuì a contagiare più rapidamente tutto il sistema finanziario.
Con il rovesciamento del mercato nel 2007, ci fu una forte svalutazione di questi titoli che innescò una reazione a catena di gravissime complicazioni in alcuni fra i più grandi istituti di credito americani. Bear Sterns, Lehman Brothers e AIG collassarono finché non intervenne il Tesoro statunitense e, ovviamente, la FED (la Banca Centrale degli Stati Uniti). Ne seguì una riduzione dei valori borsistici e della capacità di consumo e risparmio della popolazione e, soprattutto, una crisi di fiducia dei depositanti e degli azionisti verso le banche. La crisi dei mutui, che ebbe inizio con gli eventi narrati nella pellicola di Chandor, colpì anche l’economia reale, provocando la recessione e la caduta degli investimenti. Le banche centrali tagliarono i tassi d’interesse e rifornirono il mercato di liquidità. Il Tarp (Troubled asset relief program) pose fine alla deregulation reganiana e fu ripristinata, giustamente, la separazione del sistema bancario tra attività bancaria tradizionale e investment banking. La Lehman Brothers, che aveva accumulato sul mercato un’ingente quantità di credit default swap (appartenenti sempre alla categoria degli strumenti derivati), ebbe un rapidissimo tracollo che la portò ad un indebitamento di 613 miliardi di dollari. Come conseguenza del declino di questa banca d’investimento, le borse di tutto il mondo, in un’unica giornata, videro cancellati 1.200 miliardi di dollari di capitalizzazione.
Margin Call tenta e riesce nella difficile operazione di descrivere in dettaglio, seppur con termini tecnici, il clima da incubo di quel breve periodo in cui partì tutta la crisi che ha investito il mercato mondiale, collocandosi sulla scia di pellicole come Wall Street – Il denaro non dorme mai e del documentario Too big to fail, di indubbio stile televisivo più che cinematografico. Tuttavia, la pellicola di Chandor non ha semplice funzione referenziale, ma dà un taglio umano ai personaggi che stanno dietro le quinte. Al vertice abbiamo Tuld che sembra appartenere ad un’altra tipologia umana, il cui unico scopo è arrivare primo e sfruttare la situazione prevedendo gli eventi del mercato. Il suo discorso finale a Rogers è estremamente indicativo della sua personale visione del mondo e del denaro: “Sono solamente soldi, nient’altro che un’invenzione. Pezzi di carta che evitano di ammazzarci a vicenda per prendere qualcosa da mangiare. Non è sbagliato, e sicuramente non è diverso oggi da come è sempre stato. E’ sempre la stessa cosa che si ripete nel tempo, non possiamo farci niente. E io e te non possiamo controllarla. O fermarla. E neanche rallentarla né alterarla
impercettibilmente. Noi incrociamo: se facciamo bene guadagniamo, se sbagliamo finiamo in mezzo a una strada. C’è stata e sempre ci sarà la stessa percentuale di vincitori e di perdenti. ”
Indubbiamente sia lui che gli altri dirigenti sono abituati a porsi come vincitori e a piegare il mercato finanziario a loro vantaggio, ma, tra loro, si possono nettamente distinguere differenti sfaccettature della loro natura di predatori. Per sottolineare questi aspetti peculiari dei personaggi, Chandor propone un bellissimo parallelismo tra due coppie: i due veterani Emerson e Rogers e i due rispettivi discepoli, i giovani analisti Sullivan e Bregman, preoccupati per il loro imminente licenziamento. Nel dialogo tra Bregman ed Emerson, l’attenzione cade sulla gente comune, ignara di quello che sta per succedere e che rimarrà fortemente danneggiata dagli eventi. Emerson mostra di essere fortemente disilluso e ferocemente critico nei confronti del modo di agire delle cosiddette “persone normali”: “La gente vuole vivere con le sue macchine di lusso e le sue ville che non può permettersi, quindi tu sei necessario. L’unico motivo per cui tutti continuano a vivere come dei re è perché noi spostiamo l’ago della bilancia in loro favore. Ma se non lo facciamo tutto il mondo diventa improvvisamente giusto, ma nessuno lo vuole davvero. Dicono il contrario ma ti assicuro che non è vero. Vogliono quello che noi abbiamo da dare loro. Ma vogliono anche fare gli ingenui e fingere di non sapere da dove venga e questa è un’ipocrisia bella e buona che non riesco a mandare giù. Quindi fanculo le persone normali. Pensa che la cosa buffa è che se tutta questa baracca domani va a puttane ci metteranno in croce per aver azzardato troppo. Ma se non succederà, e ci rimetteremo in carreggiata, quelle stesse persone rideranno perché sembreremo i più grandi fifoni che Dio abbia messo al mondo”. Nella scena tra Rogers e Sullivan, invece, troviamo due versioni molto simili e sicuramente più sincere dell’uomo d’affari corretto che porta avanti il suo lavoro in modo scrupoloso, forse l’unico rimasto a chiedersi quale sia la cosa più “giusta” da fare, come se l’ambito della giustizia facesse ancora parte di questo mondo. Resteranno in piedi, forse, ma a che prezzo per le loro vite? Sono, in ogni caso, le scelte di pochi a governare il nostro futuro; i soldi che riescono a muovere e a far spostare nel minor tempo possibile segnano il destino di miliardi di persone, che loro, i lupi, si preoccupano a stento di osservare dai vetri oscurati delle loro auto di lusso. Alcuni di loro possono provare amarezza, rimpianto, ma la loro natura è il più attendibile specchio dei nostri tempi, in cui leggere il riflesso di una penosa sottomissione alle leggi del denaro, dei numeri, della quantità. Se le nostre esistenze sono sempre più legate all’autoreferenzialità della finanza, alla freddezza dei grafici che riportano l’andamento dei titoli, o all’imperturbabilità di un mondo incomprensibile, impalpabile che muove i fili dall’alto dei suoi uffici asettici, allora i valori sono destinati a perdersi, dopo le notti insonni, alle prime luci dell’alba. I lupi ormai sono lì fuori e, a guardar bene, stanno venendo allo scoperto. “They’re tearing up holes in the house, they’re tearing their claws in the ground, they’re staring with blood in their mouths. They won’t let me out” (“Si stanno creando delle aperture per entrare in casa, stanno scavando con i loro artigli il terreno, stanno fissando con il sangue alla bocca e non mi lasciano uscire”, citando il testo di Wolves, presente nella colonna sonora del film). Appunto, se non ci lasciano uscire, se non ci lasciano vie di fuga, dovremmo anche farceli piacere? Il punto è che non possiamo condannarli né assolverli, perché, nel bene o nel male, sono i “nostri” demoni e ci rispecchiano, ma soprattutto, riflettono il mondo che stiamo portando alla rovina e stiamo svendendo, trasformando i nostri sogni e valori in denaro e i nostri ideali in contratti che ci vincolano saldamente a loro. Vale la pena far scendere noi per far salire loro?

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