Miele: la recensione di Marita Toniolo

Che un attore di lungo corso sappia dirigere un film con tutti i crismi solo per aver calcato a lungo le scene e aver quindi assorbito indirettamente i trucchi del mestiere è tutt’altro che scontato. Che poi lo sappia fare davvero bene, scegliendosi un tema difficile e particolarmente ostico nel nostro Paese, perché sempre spunto di polemiche, dibattiti e strumentalizzazioni, è un bonus aggiunto che getta una luce positiva in più su un’opera prima. Che quell’attore poi sia la nostra Valeria Golino, carriera prestigiosa (anche hollywoodiana) e di lungo corso non può che sorprendere piacevolmente.
Miele è un film coraggioso e scomodo (tanto da meritarsi un posto d’onore nell’imminente Un certain Regard di Cannes), perché tratta di eutanasie o meglio di suicidi assistiti di malati terminali a opera della giovane trentenne Irene, che si è scelta come nome in codice di questo lavoro clandestino e pericoloso un appellativo che suggerisce quella che vorrebbe essere la sua missione: addolcire il passaggio dalla vita alla morte.
Non ci sono prese di posizione ideologiche o morali semplicistiche, ma una sospensione di giudizio che lascia spazio al pudore con cui la protagonista – che condivide ovviamente lo sguardo della neoregista – guarda alle vittime della malattie.
Golino si affida totalmente all’interpretazione sofferta e intensa di Jasmine Trinca, volto sempre più incisivo e iconico del nostro cinema, adattissimo a incarnare figure femminili indipendenti e un po’ selvatiche. Come la sua Irene, sopraffatta da affetti familiari spezzati troppo presto e che hanno lasciato solchi talmente profondi da impedirle di desiderare una vita comune, preferendole una vocazione da “angelo della morte”.
L’automatismo della vita di Irene viene interrotta dall’irrompere nella sua vita di un paziente molto particolare: l’annoiato dalla vita ingegner Grimaldi (un irresistibile Carlo Cecchi, che sdrammatizza con impagabile leggerezza la ovvia pesantezza del tema), il quale ricerca la morte pur essendo in perfetta salute e che per la ragazza ha un punto di vista sulla vita inaccettabile. «Tutte le persone che ho aiutato a morire, alla fine volevano vivere. Tutte. Solo che quella non è più vita», racconta a Grimaldi in lacrime, dopo l’ultima eutanasia, instaurando con lui un rapporto quasi filiale.
Difficile pensare a questo film come a una produzione italiana e soprattutto a un debutto anche per la cura formale con cui la Golino ha cullato la sua opera prima.

Uno “studio” che traspare spesso (avvicinando la Golino più al Ruggine e ossa di Audiard che all’Amour di Haneke) e che è l’unica vera pecca di questo film sprezzante del rischio, originale, colto e con un tocco intimista e femminile che tocca nei momenti più ruvidi e asciutti del film punte di cinema veramente alte.

Mi piace: il tema, l’originalità della storia, l’interpretazione dei protagonisti tutti in parte e, in particolare, della Trinca.

Non mi piace: l’eccesso di cura formale che incide sull’onestà dell’opera.

Consigliato a chi: non ama le storie convenzionali ed è alla ricerca di un cinema intelligente e non scontato.

VOTO: 4/5

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