Mine: la recensione di annagi_

Il cinema italiano sta vivendo un periodo di grande rinnovamento e in questo processo di svecchiamento sta imparando ad osare sempre di più, portando sul grande schermo esperimenti coraggiosi. Se l’anno scorso l’exploit è stato di Marinetti e del suo Lo chiamavano Jeeg Robot, quest’anno si candidano a ricevere il testimone altri due giovani registi: Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. Fabio&Fabio, come si firmano nei titoli di testa del loro primo lungometraggio, sono due amici che dopo anni di gavetta sono approdati al grande schermo con Mine. Nonostante si tratti di una coproduzione tra Italia, Spagna e USA, Mine è prima di tutto e soprattutto un film italiano: Resinaro e Guaglione hanno creduto profondamente in questa idea coraggiosa e non sono solo registi, ma anche sceneggiatori e produttori esecutivi. Mine è una loro creatura in tutto e per tutto.
Mine racconta la storia di Mike Stevens, un ottimo e intenso Armie Hammer, un Marine americano che di ritorno da una missione fallita resta bloccato con un piede su una mina, dopo aver visto morire il suo amico e collega Tommy. Tutto ciò che può fare è attendere 52 interminabili ore affinché un convoglio dell’esercito americano passi nella zona e lo possa salvare. 52 interminabili ore che lo metteranno alla prova non solo fisicamente, ma anche e soprattutto psicologicamente, costringendolo ad affrontare i propri demoni e i fantasmi del suo passato.
Se all’apparenza Mine può sembrare un film statico, è in realtà terribilmente vivo e dinamico sia nella messa in scena che nella scrittura. Le quasi due ore del film scorrono senza mai perdere il ritmo, merito di una scrittura dal ritmo serrato, di una regia curata e di un montaggio che fa delle ricorrenze e dei richiami il proprio punto di forza. Nel caldo del deserto le allucinazioni si fondono con la realtà e allora il piede di Mike e il click che attiva la mina diventano un’esplosione ricorrente di ricordi, traumi infantili e sensi di colpa. Ogni ricordo è una nuova mina che rischia di dilaniarlo. Negli spazi sconfinati che tengono prigioniero Mike prendono forma le mura domestiche, vera gabbia che gli impedisce di andare avanti. Se il tema dell’uomo bloccato in uno spazio determinato che lo costringe a fronteggiare il suo io più nascosto è piuttosto ricorrente nel cinema (si vedano, per citarne solo alcuni, l’interessante Locke o Buried, prodotto da Peter Safran che è anche produttore di Mine), il fatto che Mike sia prigioniero in uno spazio vastissimo è una delle caratteristiche che più rendono interessante il film. I pericoli che arrivano incontrollabili dall’esterno si riflettono sulla psiche di Mike, in un gioco di allucinazioni che affascina e al contempo inquieta lo spettatore.
Mine è un viaggio, staticamente dinamico, all’interno dell’animo di un uomo giunto al capolinea, alle prese con la minaccia della mina e i pericoli del deserto che altro non sono che una metafora delle proprie paure. I traumi del passato colpiscono il protagonista e gli spettatori come un pugno in piena faccia e la lotta di Mike con i propri fantasmi è continua. Flashback e deserto si fondono nella narrazione, coinvolgendo senza mai perdere il ritmo e mettendo in discussione ogni minuto ciò che si è appena visto, quasi fossimo anche noi spettatori vittime delle allucinazioni. Cosa è reale e cosa non lo è in questa odissea interiore?
Mine è un altro validissimo esempio di come il cinema italiano possa permettersi di guardare sempre più verso il mondo. Resinaro e Guaglione hanno avuto il coraggio di osare con un’opera complessa e dal respiro internazionale e hanno vinto la scommessa.

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