Padri e figlie: la recensione di Elisabetta Sainaghi

Jake (Russell Crowe), uno scrittore di successo vincitore del Premio Pulitzer, perde la moglie in un incidente stradale. Occuparsi da solo della figlioletta Kate è troppo difficile, soprattutto quando il dolore si presenta sotto forma di una malattia del sistema nervoso che provoca devastanti crisi e convulsioni. Per questo la affida alle cure degli zii facoltosi. Venticinque anni dopo Kate (Amanda Seyfried) è cresciuta, si è fatta donna, ma la perdita di quel padre amorevole e irrimediabilmente fragile ha lasciato in lei un trauma profondo, un vuoto incolmabile che le rende impossibile amare e lasciarsi amare e la conduce a collezionare rapporti occasionali. Unica eccezione a questa routine è rappresentata dal personaggio di Aaron Paul, il solo ragazzo che le sia resistito a fianco a lungo.

È un film che parla del processo della crescita. «Siamo tutti il risultato delle nostre infanzie» ha affermato Gabriele Muccino in più occasioni. E nel linguaggio delle immagini l’autore romano (e americano d’adozione) lo esprime con una storia che si costruisce e si racconta grazie all’alternarsi continuo di flashback e momenti di vita presente. Ciò che ne viene fuori è un inanellarsi di scene ad alta intensità drammatica (a volte contrassegnate dall’iperbole), come a voler lanciare un messaggio inequivocabile allo spettatore: «Siamo tutti figli di qualcuno» e quindi siamo tutti coinvolti.

Il primo a non restarne fuori è proprio Muccino che, come abbiamo imparato da Come te nessuno mai a Sette anime, usa il cinema per dare forma alla propria emotività. In Padri e figlie si serve in modo particolare dei corpi degli attori: il tremore di Russell Crowe, destabilizzante ma delicato, il raccogliersi di un’Amanda Seyfried chiusa nel dolore e nella paura dell’abbandono, la compostezza della troppo ricca e perbene Diane Kruger. Proprio a questo riguardo, il regista lancia un’evidente critica al potere che il denaro ha sulle persone e all’idea che l’amore corrisponda al possesso e alla “capacità di acquisto” (letteralmente: di un posto nella scuola giusta o di un’adeguata assicurazione sanitaria). Non risparmia anche un commento pungente alla critica (letteraria nella finzione della storia, cinematografica nella realtà), in grado di decidere le sorti di un’opera complessa e personale, come può esserlo un film, con un giudizio (troppo spesso) superficiale di poche righe e qualche stelletta. «Me ne frego delle recensioni» fa dire a Crowe.

Il registro melodrammatico è cifra rassicurante dello stile mucciniano, qui forse meno “gridato” che nei suoi precedenti, ma onnipresente. E infatti non mancano anche qui tutti i tratti distintivi del suo cinema, in primis il montaggio serrato grazie al quale si alternano: le corse a perdifiato, le suppliche e i litigi, le scene di rabbia, i pianti di disperazione. Un magma emotivo apparentemente ingestibile, ma controllato con mestiere da un regista che è l’unico italiano che sia riuscito a lavorare a Hollywood ad alti livelli.

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Mi piace: il processo di crescita e maturazione sentimentale raccontato attraverso l’alternanza di passato e presente.

Non mi piace: alcuni eccessi di sentimentalismo.

Consigliato a chi: ama il cinema dai tratti melò e non ha paura di mettere mano al fazzoletto.

VOTO: 3/5

 

 

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