Philomena: la recensione di Silvia Urban

Guardi Philomena di Stephen Frears e pensi: ecco come si scrive un film.
Una sceneggiatura da manuale, intrisa di uno humour british di rara intelligenza, capace di infilare una battuta dopo l’altra e di mantenere una sua integrità, nonostante gli svariati cambi di registro. Indubbio punto di forza di una pellicola che è innanzitutto storia vissuta e che il regista di The Queen trae dalle pagine di The Lost Child of Philomena Lee, pubblicato da Martin Sixsmith nel 2009.

Una vicenda che ebbe inizio circa una sessantina di anni fa, nell’Irlanda del 1952, quando la giovane Philomena, rea di essersi abbandonata ai piaceri della carne ed essere rimasta incinta all’infuori del matrimonio, venne ripudiata dalla famiglia e rinchiusa in un convento di suore. Qui partorì, ma a tre anni dalla nascita di Anthony, venne separata da suo figlio, dato in adozione (meglio, venduto) a una coppia americana insieme ad un’altra piccola, anch’essa frutto del peccato. Molti anni più tardi Philomena – che nel frattempo non ha mai smesso di cercare il suo bambino – incontra il giornalista e scrittore Martin Sixsmith, ex inviato di BBC News ed ex responsabile della comunicazione del Primo Ministro britannico Tony Blair, appena licenziato da Downing Street per via di uno scandalo mediatico che lo aveva coinvolto. L’uomo si offre di aiutarla nella sua ricerca, che li condurrà negli Stati Uniti per poi tornare là dove tutto era cominciato.

Philomena è un film scorrevole, divertente, toccante. Dove ogni cosa è esattamente al proprio posto. La regia, estremamente pulita ma non priva di personalità, si mette al servizio della storia e sceglie la sobrietà quale via per esaltarne l’intrinseca ricchezza. Una confezione gradevole sotto ogni punto di vista: diretto, scritto e recitato benissimo, e nei tempi giusti. Judi Dench e Steve Coogan (co-autore anche della sceneggiatura insieme a Jeff Pope), entrambi straordinari, sanno infondere ai loro personaggi una precisa caratterizzazione, molto equilibrata. Laddove l’equilibrio non è il risultato di uno sforzo, ma l’effetto della genuinità del racconto. Che tocca momenti di profondità e poi si abbandona all’ironia, che commuove e diverte, senza mai sconfinare nel pietismo o nel sarcasmo. Piuttosto nel cinismo, a cui Frears non rinuncia quando si tratta di denunciare l’intransigenza, se non la «malvagità» e il moralismo alienante della Chiesa Cattolica. Criticata in quanto istituzione (è la posizione di Martin), ma “salvata” nella sua dimensione spirituale e di fede, a cui Philomena sente il bisogno di abbandonarsi per ritrovare una sua serenità.

È il duetto tra due caratteri agli antipodi (per nascita, educazione e cultura) ma animati da un obiettivo comune (e più alto) a trascinare in questo viaggio in cui presente e passato si alternano con molta sapienza. Senza lasciare che il dolore dei ricordi prevarichi la speranza e l’emozione della scoperta.
In Concorso all’ultima Mostra di Venezia, il film si è aggiudicato solo il premio alla Miglior sceneggiatura; per noi rimane il vincitore morale del festival.

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Mi piace
Lo script brillante e intriso di humour british di rara intelligenza. La prova magistrale di Judi Dench e Steve Coogan.

Non mi piace
Forse è fin troppo pulito e istituzionale.

Consigliato a chi
Cerca una commedia brillante, ironica ma per nulla banale. Anche perché il tema è delicato e la storia vera.

Voto
4/5

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