Killers of the Flower Moon a Cannes 2023: la recensione del film di Martin Scorsese

Al Festival è la volta del nuovo film di Martin Scorsese con un cast d'eccezione che comprende Leonardo DiCaprio, Robert DeNiro e Brendan Fraser

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Killers of the Flower Moon è il punto di incastro tra il western classico nella sua forma seminale, cowboy-contro-indiani, e il gangster movie scorsesiano, dove un pugno di criminali senza scrupoli conquista e poi presidia a suon di omicidi un territorio urbano. Mostra in sostanza che negli anni Venti, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema di sterminio degli indiani d’America e di appropriazione delle loro risorse, era cambiato nelle forme ma non nella sostanza.

Il film racconta quanto avvenuto nella riserva degli Osage, in Oklahoma, tra il 1910 e il 1930, quando oltre sessanta nativi vennero uccisi in circostanze mai chiarite e senza che le forze dell’ordine locali se ne interessassero davvero. Un massacro avvenuto alla luce del sole e della (presunta) regola sociale, e orchestrato da alcuni ricchi allevatori locali, a partire da William Hale, che nel film è interpretato da Robert De Niro.

La ragione di tutto questo è che nella riserva erano stati scoperti dei giacimenti petroliferi che avevano trasformato la tribù nella popolazione con la più grande ricchezza procapite del mondo, suscitando immediatamente le mire delle compagnie petrolifere che avevano bisogno, diciamo così, di intermediari, uomini che dentro e fuori i limiti del consentito (per esempio attraverso matrimoni misti) trasferissero i diritti ereditari sul territorio a uomini bianchi, e permettessero di controllare il costo del greggio.

Queste sono le ragioni e le premesse di questo strano ibrido di gangster-western, in un film che inizia con l’arrivo a Osage County di un reduce di guerra, Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), senza prospettive e senza idee. La fortuna di Ernest è che suo zio è proprio WiIliam Hale, “benefattore” locale, sceriffo senza distintivo in quella terra di contraddizioni e spavento: gli procura un posto come autista e lo consiglia di sposare una ragazza indiana, Molly (Lily Gladstone), una delle poche ancora libere (e vive) con un bel pezzo di terra intestato alla sua famiglia.

Oltre due ore di film sono adoperate per raccontare l’ambientamento di Ernest, il suo adattamento alle regole e all’ordine imposto dallo zio: la sua presa di coscienza è la stessa dello spettatore, che resta spiazzato di fronte a un quadro in cui la divisione tra buoni e cattivi non è inizialmente chiara (i volti di assassini e ladri sono per lo più celati, emergeranno via flashback più oltre) e in cui è difficile in particolare capire cosa prova il protagonista, uno che, se pure si sposa per convenienza, ben presto pare realmente innamorato.

Ci sono tantissimi fatti, tantissimi episodi giustapposti, investigatori privati, indagini che sembrano partire e non partono mai, attraverso cui il quadro di questa criminalità silenziosamente eretta a sistema emerge piano piano. Pure essendo un film molto lungo la sensazione è che la narrazione proceda fin troppo spedita e la storica montatrice di Scorsese, Thelma Schoonmaker, debba fare i salti mortali per far quadrare i conti del girato dentro un minutaggio accettabile.

Nell’ultima ora e nell’ultimo atto il film cambia radicalmente registro, quando l’FBI di J, Edgar Hoover manda i suoi uomini in Oklahoma sollecitato da una delegazione di nativi, per cercare di capire cosa stia succedendo. È a questo punto che Killers of the Flower Moon diventa più “decifrabile” e in un certo senso godibile: buoni e cattivi occupano ormai tutti la loro casella e si tratta di stabilire se la giustizia farà o meno il suo corso attraverso interrogatori e derive processuali. È anche a questo punto che subentra tutto un altro pezzo eccezionale di cast – Jesse Plemons, Brendan Fraser (fantastico nel ruolo dell’avvocato prezzolato dalle compagnie petrolifere, se ne vorrebbe di più), John Lithgow – e si ha nuovamente la sensazione che il film respirerebbe meglio con più di tempo a disposizione, magari nel formato di una miniserie.

C’è poi un epilogo bellissimo, in cui Scorsese si mette in gioco in prima persona e allo stesso tempo mostra di non aver avuto davvero problemi di budget, con i classici cartelli che raccontano sui titoli di coda il destino dei protagonisti che vengono sostituiti da una specie di recital teatrale.
Mi sembra anche importante notare il coraggio di DiCaprio nel mettersi in gioco nel ruolo di un “utile idiota”, un ometto meschino disposto a tutto per farsi una vita, manipolato a proprio piacimento dal potente di turno. Non c’è nulla di epico nel suo personaggio, soprattutto nessuna grandezza (neppure come villain: quella è tutta di De Niro), quindi si resta completamente spiazzati, è una cosa che a Hollywood è rarissima, i precedenti si contano sulle dita di una mano: vuol dire avere una certezza della propria carriera (DiCaprio è anche produttore) impressionante.

Scorsese firma così un film unico e diverso – per quanto coerente – nella sua filmografia: si respira un’aria da kolossal che prescinde dalle incertezze e dalle possibili, future, ricuciture di montaggio. La denuncia del capitalismo criminale, le origini dell’imperialismo di cui anche oggi osserviamo le modalità su scala globale, è potente e chiara, la sua fiducia nel cinema totale. C’è un impegno che va condiviso, meno divertimento rispetto ai suoi film passato, forse si potrebbe dire una maggiore moralità: una piccola fatica dello sguardo e del pensiero che lo spettacolo stavolta pretende.

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Foto: Paramount Pictures

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