Volevo nascondermi, la recensione del film con Elio Germano

Fortemente ostacolato dal lockdown, è tornato nelle sale dopo il trionfo ai David di Donatello il film dedicato alla tormentata figura dell’artista Antonio “Toni” Ligabue e diretto da Giorgio Diritti

Volevo nascondermi
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3)
Colonna sonora (2)

Antonio Ligabue (Elio Germano) è figlio di emigranti. Dopo la morte della madre viene affidato ad una coppia svizzero-tedesca ma i suoi problemi psicofisici lo porteranno all’espulsione. Viene mandato a Gualtieri in Emilia, luogo di cui è originario l’uomo che è ufficialmente suo padre. Qui vive per anni in estrema povertà sulle rive del Po fino a quando lo scultore Renato Marino Mazzacurati lo indirizza allo sviluppo delle sue naturali doti di pittore.

La primissima inquadratura di Volevo nascondermi, il biopic che il regista Giorgio Diritti ha dedicato ad Antonio “Toni” Ligabue, dice già molto. Si tratta di un primo piano che vede il volto del pittore schermato da un drappo nero, da una cui fessura fa capolino il suo occhio spalancato nell’oscurità, in direzione dello sguardo dello spettatore. Un’immagine evidentemente simbolica che svela subito la dimensione del progetto, intento a scrutare il mistero dell’arte sepolta sotto la coltre e l’ottenebramento della follia, e anche della natura di quest’artista dalla parabola esistenziale tanto sfaccettata quanto travagliata.

Siamo in uno studio medico, all’inizio del film, ed è un contesto che Ligabue in vita conobbe molto da vicino per via di malesseri, isterie e nevrosi abbastanza invalidanti, amplificate da un’infanzia segnata da soprusi e abbrutimento psicologico di vario genere. Pur incentrando il suo lungometraggio su un totem così ingombrante sul fronte della schizofrenia personale, Volevo nascondermi su questo aspetto complessivamente tende a glissare. Lavora più sulla raffigurazione degli effetti che sulle cause e, appunto, sull’occultamento e le reticenze di un’arte scorbutica e ringhiante.

Opta insomma per l’affresco in sottrazione, Diritti, pur muovendosi nelle maglie talvolta un po’ strette del film biografico canonico. Molte sue immagini, soprattutto en plein air, rivaleggiano col tratto su tela dell’artista, un po’ come fatto da Mike Leigh nel suo Turner. Qui però non siamo alle prese col romanticismo paesaggistico, ma con le tenebre e con la naiveté scomposta e selvaggia di un uomo che aveva per soggetto privilegiato gli animali, creature che sentiva prossime a sé e alla sua sensibilità ancestrale. La scena in cui Ligabue, rispondendo a chi gli chiede perché la pioggia non bagni i suoi cavalli, asserisce che lui quei cavalli li rispetta, la dice lunga sugli orizzonti della sua empatia, lontana da ogni compromesso salottiero.

Una sorta di bestia che dipinge altre bestie, dunque, il Ligabue di Diritti e Germano, analogamente a ciò che disse di Kubrick Jacques Rivette: «È una macchina, un mutante, un marziano. Non ha sentimenti di alcun tipo. Ma è bello quando una macchina filma altre macchine, come in 2001». E Toni, oltre ad avere un rapporto interdetto coi sentimenti, era anche un individuo pieno di contraddizioni spigolose. Volevo nascondermi tale doppiezza la riversa nell’arco della sua narrazione, immersa in un Emilia placida e popolaresca, fatta di inflessioni dialettali vellutate e di un tepore simile a una carezza.

In opposizione a tale scenario rurale, l’artista sperimenta infatti sulla propria pelle una tensione verso il consumismo che si esercita attraverso l’acquisto smodato di motociclette, l’ossessione per il matrimonio come massimo appagamento del sogno borghese e l’insistenza sulla sua condizione da anima eletta perché votata interamente all’arte e non all’ottusità della cattiveria del mondo (si perde il conto delle volte in cui pronuncia la frase «Io sono un artista»).

Nel raccontare tutto questo Diritti sceglie la via più scarna e dunque anche quella più legittima, avara di compiacimenti e guizzi, focalizzata in maniera mimetica sul suo protagonista, stando però attento a dosare e parcellizzare colori, tonalità e sfumature sulla propria tavolozza. Un voto di castità alla Ermanno Olmi, di cui Diritti non caso è allievo, che permette a Volevo nascondermi di non lasciarsi cannibalizzare dall’eccellente prova di Elio Germano, premiato alla scorsa Berlinale come miglior attore, caricata ma paradossalmente mai caricaturale, giocata com’è su corde pazze ma sottilissime. Indubbiamente un merito.

Foto: Palomar/Rai Cinema

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