Ettore (Fabrizio Bentivoglio), scrittore di fama coi capelli bianchissimi e delle chiare abitudini analogiche, per il suo compleanno conduce la sua famiglia, piuttosto allargata e caotica, in uno chalet di montagna in Trentino, dove nel frattempo spera di portare a casa un romanzo che soddisfi il suo editore, sempre più scontento. Non ha fatto i conti, tuttavia, con la dipendenza del resto della ciurma da internet, smartphone, social e condivisioni: quando la linea wi-fi viene meno e tutti restano permanentemente senza accesso alla rete le reazioni vanno dall’isterico al disperato.
Sconnessi di Christian Marazziti appartiene a un nuovo piccolo brand comico del cinema italiano che la contemporaneità sembra imporre e che non può che trovare in Perfetti sconosciuti un padre nobile ideale, dato il successo al botteghino e di costume del film di Genovese (qui c’è anche la stessa giovane attrice, Benedetta Porcaroli). Gli esempi non sono ancora numerosissimi, ma la strada appare inequivocabilmente segnata e c’è da scommettere che a livello produttivo vedremo tale proposta commerciale fioccare ulteriormente.
In questo caso a bollare lo smartphone – con tutto ciò che gli gravita intorno in termini di pratiche sociali e individuali – come la scatola nera della nostra societànon è lo svelamento del suo contenuto, come in Genovese, ma la sua momentanea assenza, un fuori campo imposto dall’assenza di campo, dall’essere momentaneamente inservibile. Dalla stessa idea era già partito Federico Moccia nel giovanilistico Non c’è campo, ma anche Massimiliano Bruno si era mosso in un territorio simile con Beata ignoranza, dove la contrapposizione tra analogico e digitale era, un po’ come in Sconnessi, sottilmente tecnofobica, incapace di non insinuare il sospetto della demonizzazione apocalittica anche sotto la superficie della risata sguaiata, che in quel caso prendeva vita nel confronto tra un Gassmann superconnesso e un Giallini tutt’altro che social.
La commedia degli equivoci, venata di disperazione e isterismo, in questo caso è tutta incentrata sull’adesione o meno ai dettami della rete da parte dei personaggi, col solo Ettore di Bentivoglio a chiamarsene esplicitamente fuori e tutti gli altri a soccombere, compresa la più insospettabile, ovvero la Tea interpreta dall’eroticissima Giulia Elettra Gorietti, nel ruolo della fidanzata del figlio rancoroso Ettore, Claudio (Eugenio Fantastichini), succube del fascino dello scrittore ma con qualche scheletro nell’armadio della rete che la avvicinerà, anche in termini di seduzione, al candore truce e bonario di Ricky Memphis.
La messa a punto delle gag, che si alternano a momenti più riflessivi e distensivi in un equilibrio agrodolce comunque più votato allo spunto pirotecnico e deflagrante – i fuochi d’artificio li accende Stefano Fresi, nei panni del bipolare e scatenato Palmiro – è gustosa anche se disordinata e lavora sugli stereotipi in accumulo (la tata russa, Carolina Crescentini naïf e borgatara, pericolosamente in zona Corinna Ricci di Boris – La serie). Niente va particolarmente per il sottile e i ragazzi di oggi sono corredati dalla colonna sonora de Il tempo delle mele, anche se partecipano a dei concorsi per un selfie con Fedez.
La godibilità generale è però garantita soprattutto dal fatto che gli attori sono tutti imprigionati nelle loro maschere “sociali”, proprio come ognuno di noi nei nostri avatar digitali e social: Bentivoglio fa l’intellettuale stropicciato, la Crescentini la Corinna di Boris, come detto, ma in versione burina, Ricky Memphis, come di consueto, il coattone, Fresi il matto scriteriato, pazzoide come l’Alberto di Smetto quando voglio. Ognuno fa sostanzialmente se stesso, ma a partire da un canovaccio molto consolidato, come la commedia dell’arte insegna, le possibilità di sbizzarrirsi con la comicità di situazione sono infinite: potenzialità che il copione firmato dal regista Marazziti, da Michela Andreozzi e Massimiliano Vado non manca di cavalcare ogni volta che può. Lavorando sulle connessioni tra i personaggi, certo, ma soprattutto sulle sconnessioni di ognuno di loro rispetto a se stesso, che, com’è facile immaginare, non sono poche.
Mi piace: il lavoro sulle maschere “sociali” incarnate dai singoli attori
Non mi piace: le forzature un po’ disordinate di alcuni spunti comici
Consigliato a: chi abbia amato Perfetti sconosciuti e abbia voglia di vederne una versione più caotica e ruspante
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