Sole a catinelle: la recensione di Giorgio Viaro

Diciamo subito il più: Sole a catinelle, il nuovo film di Checco Zalone garantisce una dose di risate sopra la media per il cinema italiano, ed è forse il più divertente dei suoi tre. Incasserà una montagna di soldi, favorito dalle oltre 1200 copie (!) in cui verrà distribuito (praticamente un monopolio: povero Captain Phillips). Qui si aprirebbero tutta una serie di considerazioni di carattere sociale, antropologico, artistico. Proviamoci. Zalone è una maschera, un Arlecchino, e non a caso nel film il personaggio porta il suo nome d’arte. È in un certo senso come Totò, o il cafone alla De Sica. Non si discute cioè in termini di messa in scena – elementare, come le canzoni da scuola materna della colonna sonora – si discute in termini di immaginario, di capacità di integrare il personaggio alla società che lo mette in scena: i suoi film sono le piazze in cui si esibisce. Tutto il resto, nel giudizio che si può costruirgli attorno, mi sembra pretestuoso.

Il canovaccio di Sole a catinelle è questo: Checco Zalone (Checco Zalone) vende aspirapolveri a domicilio, mentre la moglie occupa la fabbrica in cui lavora e che sta per chiudere. C’è anche un figlio piccolo, in età da elementari, che nonostante i problemi a casa prende tutti dieci e va premiato con una vacanza speciale. Solo che papà non ha una lira, e decide di portarlo in Molise da una zia vecchia e avarissima. Poi succedono altre cose, incontri fortuiti, e i due si ritrovano ospiti proprio della famiglia di imprenditori proprietaria della fabbrica in cui lavorava mamma.

Il film è quindi una linea che unisce i due vertici della crisi economica: la famiglia operaia mandata al macello, e l’alta imprenditoria finanziaria e trafficona, quella che lavora sul denaro virtuale invece che sulle merci. Zalone è lo specchio che attraversa entrambe: deideologizzato, terrigno,  grottesco, irriguardoso di qualsiasi tabù – a destra e a sinistra -, legato solo ad un’idea romantica dell’amore, talmente stereotipata e parodica da essere anch’essa azzerata in termini di credibilità, piuttosto che conservatrice. Si potrebbe obiettare un certo qualunquismo, questo sì politico, nel dare più o meno esplicitamente dei deficienti a psicologi dell’infanzia, minoranze politicizzate, artisti concettuali, registi impegnati, capi d’industria e via discorrendo – che è lo stesso che grava ad esempio sul cinema di Aldo, Giovanni e Giacomo (i più simili per tono e sketch a Zalone). Ed è da qui che può provenire l’insofferenza per il personaggio. Ma la maschera crea uno scarto costruttivo solo quando toglie tutti i punti di riferimento, quando rende difficile orientarsi. Arlecchino, come Ruzante, come Totò, metteva a ferro e fuoco le proprie origini disastrate come il sistema di valori dei “padroni”. La satira migliore non è un atto d’accusa a qualcuno, è un azzeramento. Zalone ci va vicino: forse non sa del tutto quello che fa, ma lo fa abbastanza bene.

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Mi piace
La “maschera” Zalone oggi in Italia non ha rivali

Non mi piace
Regia povera povera, quasi accessoria

Consigliato a chi
Ama il personaggio e le sue gag, orientate sempre al politicamente scorretto

Voto: 3/5

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