Spider-Man: Homecoming

Un Peter Parker giovanissimo e super-accessorriato, ad alto tasso di rispecchiamento per i teenager

Spider-Man: Homecoming cast Jennifer Connelly

Uno Spider-Man teen e giocoso, che abbia addosso la spensieratezza dei quindici anni, la leggerezza dell’adolescenza, la bellezza della scoperta continua e un po’ goffa, tipica di quella fase della vita in cui le cose le si conoscono inciampando, sperimentando, il più delle volte andando a tentoni: è questa la sfida che si pone Spider-Man: Homecoming di Jon Watts, cinecomic all’insegna della convergenza tra Sony e Marvel che segna l’ingresso dell’Uomo Ragno nel Marvel Cinematic Universe dalla porta principale (dopo il cameo d’eccezione in Civil War). Un vero e proprio prologo per una nuova trilogia, con tanto di lancio finale di un nuovo costume, guidata soprattutto dal bisogno di rivolgersi al pubblico dei kids e dei teenager rilanciando in chiave millennial l’immaginario di un supereroe da sempre amatissimo.

Un tentativo che in questo primo capitolo può dirsi senz’altro riuscito, perché la dimensione da teen movie (si è scomodato a più riprese, e a ragione, John Hughes) dona un’inedita freschezza al Peter Parker liceale incarnato dal giovane attore britannico Tom Holland: un volto acqua e sapone, solare e pulito, che però ostenta a più riprese una sorta di espressione riflessiva, un’ombra di ritorno, una smorfia obliqua. Come a dire: va bene coltivare lo stupore per i propri incredibili mezzi, ma da grandi poteri derivano pur sempre grandi responsabilità ed è impossibile, anche a quindici anni, non farci i conti se ti chiami Spider-Man e come mentore, pronto a giudicare ogni tuo passo, hai addirittura Tony Stark.

La scelta di non raccontare le origini del personaggio, soffermandosi in maniera nitida e dinamica sul romanzo di formazione di uno Spider-Man giovanissimo e iperconnesso, con tanto di sfigato e impacciato amico al seguito asiatico al seguito (le accuse di razzismo al secondo Spider-Man di Raimi sono lontane anni luce, perché qui regna il politicamente corretto), permette a Spider-Man: Homecoming di sporcarsi le mani in maniera ludica e spericolata. Tanto con l’azione, il cui pedale è sempre premuto al massimo delle possibilità anche se in chiave molto infantile (fatta eccezione per il finale, più debole), quanto con le nuove tecnologie, improntate all’istantaneità degli eventi, alla messa a nudo di se stessi e al bisogno impellente di raccontarsi, in prima persona, possibilmente senza filtri: “un film di Peter Parker”, recita ironicamente sui titoli di testa Spider-Man: Homecoming, alludendo alla paternità del video in soggettiva filmato dallo stesso Spider-Man mentre è alle prese con una sessione molto particolare del suo stage per gli Avengers e con un’interazione a dir poco esplosiva con Captain America (rispetto agli Avengers il film di Watts è una vera e propria iniziazione).

Uno Spider-Man per le nuove generazioni, dunque, a misura di storia su Instagram ma anche nerd e super-accessoriato, com’è giusto che sia per un ragazzino cui tocca agire in scia ad Iron Man e agli Avengers tutti. Il costume di Spider-Man, in questo caso, somiglia più che mai a una diavoleria multitasking, con tanto di Siri incorporata a guidare il nostro giovane e in parte inesperto eroe (una Lady Costume di nome Karen), a riprova di un cinecomic che insiste sul tema dell’interattività, del confronto con i nuovi linguaggi e le nuove modalità d’uso del corpo, del video, perfino della voce. Al netto di questo sgargiante aggiornamento, gli elementi centrali dell’epica dell’Uomo Ragno sono sempre gli stessi e non potrebbe essere altrimenti, con tanto di innamoramento stordente di Peter Parker, manco a dirlo impossibile da vivere serenamente a causa dei suoi impegni incessanti nella lotta contro il crimine, per una bellissima ragazza afroamericana di nome Liz (il discorso etnico, come si diceva, è gestito con smaliziata oculatezza).

Dimentichiamo, però, le luci e ombre dello Spider-Man di Raimi, i suoi dissidi interiori, la ricerca abbagliante di una maturità e di un posto nel mondo che rendevano delle vere e proprie pietre miliari della storia del cinecomic i primi due capitoli della trilogia con Tobey Maguire protagonista (in particolare il secondo, con un cattivo tentacolare, Octupus, di statura letteraria di fatto shakespeariana): lo Spider-Man di Tom Holland è, a conti fatti e con estrema consapevolezza dei propri mezzi, solo “un tipo che sta su YouTube”, un potenziale fenomeno social che però può vantare più di un’implicazione nel mondo reale ma rimane pur sempre un supereroe con superproblemi, alle prese con salvataggi impossibili di damigelle in pericolo e sequenze ad altissimo tasso di tensione e di brividi lungo la schiena, come quella del monumento di Washington.

Avere un padre putativo come Tony Stark non può che essere traumatico, a pensarci bene, soprattutto se è talmente gradasso e pieno di sé da rinfacciarti la responsabilità di un costume da milioni di dollari che ha avuto l’ardire di fornirti ma poi ti ritiene così immaturo e bambinesco da metterti addosso una sorta di traccia che monitori ogni tuo spostamento, un protocollo baby monitor per supereroi tutt’altro che responsabilizzati. Da questo paradosso all’insegna del cortocircuito tra infanzia e adolescenza prende vita il ritorno a casa di Spider-Man: Homecoming, vero e proprio coming-of-age indentitario in cui, per Peter Parker, sarà fondamentale trovare la radice di se stesso e dell’eroe che vuole diventare. Perché in fondo “se sei niente senza il costume allora non dovresti averlo”, come gli fa eloquentemente notare Stark con la più saggia delle sue chiose.

Un percorso costellato di ostacoli, primo fra tutti l’Avvoltoio di Michael Keaton, villain proletario e patriarcale, che vende le armi ai criminali, sogna l’esproprio populista, coltiva un odio sociale fortissimo per Stark e i suoi “giocattoli”, ma anche per tutti quelli che come lui lasciano agli altri solo le briciole e arraffano tutto, in maniera famelica e con selvaggia logica capitalista. Se il cattivo di Keaton mostra un debito evidente e piuttosto letterale con il Birdman di Alejandro González Iñárritu, almeno per quanto riguarda la scelta dell’attore e l’iconografia che viene scomodata, il punto di contatto, nonché il contrasto per analogia, con questo Peter Parker imberbe ma dalla parte degli ultimi, che aiuta le signore dominicane per strada dando loro indicazioni e si ferma a parlare un po’ con tutti, è a dir poco interessante e stimolante (Stark attribuisce infatti a Peter, tra il serio e il faceto ma non certo a caso, una certa “aura da eroe springsteeniano della classe operaia”). Il problema, semmai, è che le implicazioni economiche e anarcoidi dei metodi lavorativi dell’Avvoltoio rimangono in superficie e non sono quasi mai approfondite in sede di scrittura, visto che la sceneggiatura a tal proposito è piuttosto approssimativa e frettolosa.

Sulla dimensione patriarcale della creatura di Keaton non ci addentriamo oltre per non incappare in clamorosi spoiler (anche perché a due terzi del film c’è una svolta davvero elettrizzante, che lascia a bocca aperta), ma l’Avvoltoio non è certo l’unico personaggio di contorno a destare curiosità: oltre all’Happy Hogan di Jon Favreau, alle prese con gustosi siparietti con il duo Robert Downey Jr. – Holland e con un inside joke finale da applausi relativo al primo Iron Man di cui lo stesso Favreau era naturalmente regista, impossibile non spendere due parole sull’attesissima zia May di Marisa Tomei, la cui scelta di casting piuttosto ardita aveva fatto parlare molto di sé: mediterranea ed erotica (“un’italiana sexy”), con abiti succinti e pantaloni a vita altissima, è un’apparizione svampita e leggiadra, che non impartisce lezioni di vita ma, alla fine della fiera, solo consigli di stile e (inevitabili) turbamenti ormonali agli amici di Peter. Una perfetta, e modernissima, May contemporanea in linea con il ringiovanimento selvaggio di tutta l’operazione, che ha il solo demerito di essere un po’ sacrificata e tirata via nel disegno complessivo.

Mi piace: l’aggiornamento di Spider-Man in chiave millennial e social, consapevole e sagace

Non mi piace: il cattivo di Michael Keaton, l’Avvoltoio, che non si dedica a dimostrazioni plateali e a superattacchi ma traffica armi nell’ombra. Si tratta, purtroppo, di un personaggio non del tutto approfondito in sede di sceneggiatura, nelle sue implicazioni economiche, politiche, etico-sociali

Consigliato a: un target di giovanissimi, che potranno immedesimarsi e rivedersi al massimo grado

Voto: 3/5

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