Tartarughe Ninja: la recensione di Andrea Facchin

A 30 anni dalla serie a fumetti di Kevin Eastman e Peter Laird, Jonathan Liebesman, con lo zampino di Michael Bay, dirige un reboot che dal punto di vista dell’entertainment più spensierato è ineccepibile: ritmo serrato, azione spettacolare e ben coreografata, effetti speciali all’avanguardia con un motion capture che riesce a dare la giusta espressività ai quattro protagonisti e al loro sensei, Splinter. Per quasi due ore, Tartarughe Ninja ti travolge con il suo humor scanzonato, che trova in Michelangelo (e chi se no?) il mattatore incontrastato: è l’anima della festa, e trascina con sé anche i fratelli Leonardo, Donatello e Raffaello, che regalano una serie di gag a volte ispirate alla più classica slapstick comedy. I loro sono dialoghi serrati, (auto)ironici anche nelle situazioni più “drammatiche”, che purtroppo il doppiaggio italiano priverà di molta verve (abbiamo visto il film in lingua originale).

Liebesman fa un bel salto di qualità dopo l’esperienza peplum di La furia dei Titani, e, benché la mano di Bay sia comunque evidente (soprattutto in una scena, la più bella del film: un frenetico inseguimento sulla neve, fatto di slow motion ed esplosioni), qui siamo di fronte a un intrattenimento diverso rispetto a quello offerto dai Transformers: è un cinema molto più ludico, che non si prende mai sul serio, vicino al modello Marvel per ingredienti (risate-azione-effetti speciali) e meno pompato della saga dei robottoni Hasbro.

Ma ecco che a mente fredda, esaurita l’adrenalina da battute, calci, e pugni, emergono i difetti, che all’occhio di chi è cresciuto con i fumetti, la serie animata e i due film del 1990 e ’91 (Tartarughe Ninja alla riscossa e Tartarughe Ninja II – Il segreto di Ooze; tralasciamo il terzo, improbabile excursus all’epoca samurai), paiono subito evidenti. Non parliamo tanto della storyline, semplice e lineare seppur con qualche licenza poetica rispetto all’originale (Splinter & Co. nascono come cavie da laboratorio, legate a doppio filo con April O’Neil, e il loro aspetto inedito – gigantesco – è legato alla potenza del mutagene). Quanto della caratterizzazione dei personaggi, troppo superficiale. Non serviva un approfondimento psicologico in stile Nolan, ovviamente, ma più coraggio – e voglia – nel definire il carrattere tormentato e ribelle di Raffaello, per natura più volte in conflitto con la leadership di Leonardo, senza ridurre Donatello a un nerd totale con la passione sfrenata per l’hi-tech. L’unico fedele in toto a se stesso è Michelangelo, che però era anche il più semplice da rappresentare per la leggerezza che da sempre lo contraddistingue. E Shredder? Un malvagio e fortissimo sensei che combatte con un’armatura che sembra uscita dritta – guarda caso – dal mondo di Optimus Prime & Co.

Un restyling apprezzabile per toni e vivacità, dunque, ma che riesce solo in parte pur avendo a che fare con un brand di massa. L’effetto di questa nuova versione delle Turtles è simile a quello che si prova osservando un quadro: da lontano sembra perfetto, ma più ci si avvicina, più ne noti le imperfezioni. Nel mondo, però, il film ha incassato più di 300 milioni di dollari, segno che – Bay docet – il pubblico alla profondità di storia e protagonisti a volte non bada proprio. Giusto, dato il tipo di spettacolo di cui stiamo parlando, ma siamo convinti che un tratteggio più spesso dei quattro eroi non avrebbe fatto che bene. Quando Hollywood lavorerà seriamente su questo dettaglio per i suoi blockbuster, allora avremo a che fare con un’esperienza di full entertainment, capace di farci uscire dalla sala pienamente soddisfatti.

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Mi piace:
Il ritmo coinvolgente, il motion capture efficace e l’ironia del film, fedeli alla tradizione delle Tartarughe.

Non mi piace:
La caratterizzazione troppo superficiale dei quattro protagonisti.

Consigliato a chi:
È cresciuto con il fumetto e la serie animata, al grido di Cowabunga.

Voto: 3/5

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